Menomale. Anche dalle nostre parti c’è chi ha aderito alla lodevole iniziativa promossa dalla radio pubblica “M’Illumino di Meno” e alle 18.00 di oggi ha coscienziosamente spento la luce. Forse voi tre o quattro lettori non ve ne sarete nemmeno accorti, presi come siete dalla mediocrità egoista delle vostre faccenducole quotidiane come il lavoro, eppure qualcuno oggi ha scelto -anche per il bene vostro- di rinunciare alla luce in cambio dell’oscurità. Qualcuno ha premuto coraggiosamente l’interruttore, camminato a tentoni e pure incespicato per salvare voi e il pianeta che, se non lo sapete, è in pericolo. Sentitevi in colpa, spregevoli consumatori di energia. Sentitevi in colpa, famelici divoratori di watt. Sentitevi tremendamente in colpa, perché a voi pirla per guadagnare serve la corrente elettrica. Ad altri, invece, basta una campagna ecologista. E, magari, più vicino a noi, un aperitivo a lume di candela.
venerdì 13 febbraio 2009
domenica 1 febbraio 2009
Anche i passeggeri nel loro piccolo s'incazzano
Il Secolo XIX, 1 febbraio 2009
Sono le 21,34 di venerdì 30 gennaio e, assieme a qualche decina di povericristi come me, mi sto girando i pollici nell’aeroporto di Fiumicino. Ci hanno appena comunicato che il volo delle 21,25 per Genova (che avrebbe dovuto decollare nove minuti fa) è differito alle ore 22,00 (in realtà, ci faranno imbarcare in quel momento, col risultato di arrivare a destinazione con quasi un’ora di ritardo). Differito – così ha detto la gentile signorina al gate A22 per placare la rabbia di chi, a quest’ora, vorrebbe tornare da moglie e figli. La reazione dei passeggeri, puoi immaginartela. C’è il vecchietto isterico che “figgi de bagasce!”. C’è l’altro prototipo di vecchietto, quello bonaccione con una spolverata di capelli bianchi che la prende sul ridere. C’è la coscialunga in carriera, c’è il ragazzino col computer tempestato di stickers, c’è il manager che prende un appuntamento per domani mattina, ci sono tutte le gradazioni del grigio e del blu negli abiti anonimi e nelle cravatte di questa strana umanità che viaggia per lavoro e rientra in giornata (e qualcuno che azzarda combinazioni più chic, uno con cravatta salmone a righe gialle su giacca carta zucchero e camicia che ne riprende i colori). Tutti che cristonano nel telefonino, tutti che chiedono come stai a chi risponde dall’altro capo, tutti che si affollano al bar per addentare un costosissimo panino alla plastica, tutti che raccontano i pettegolezzi di oggi come se questo potesse ingannare il grande cronometro dell’universo e comprimere lo spazio che ci separa dall’ingresso sul velivolo. E invece tic toc tic toc, l’orologio gira lento come non mai. Sai cosa non c’è, se si esclude qualche isolata reazione iniziale?
Non c’è più la rabbia. Una volta, l’annuncio di un ritardo importante, soprattutto in certe giornate e in certi orari, destavano la rabbia dei passeggeri. Qualcuno urlava, qualcuno pretendeva di parlare col capo, qualcuno semplicemente diceva alla signorina al gate tutto quello che pensava di lei, della sua mamma e soprattutto della compagnia per cui lavorava. Invece, nulla. La rabbia è sparita. Gli ultimi due anni, durante i quali si è svolto il pazzesco teatrino della privatizzazione di Alitalia, hanno a tal punto fiaccato la pazienza della gente che adesso il ritardo fa parte del novero delle cose certe, assieme alla morte e le tasse. Quelli di noi che si erano illusi, nelle meno delle due settimane trascorse dall’avvio della nuova Alitalia, che quella brutta parentesi si fosse chiusa, oggi sono tornati alla realtà. E’ vero: secondo quanto ha riferito il pilota (di un volo operato da Airone, peraltro) il ritardo era dovuto all’inefficienza dei servizi aeroportuali. Però, resta il fatto che dei quattro voli che io ho preso oggi, tre erano in ritardo, quale che ne fosse la causa.
Il problema vero, in fondo, è che la manovra governativa per la privatizzazione di Alitalia e il salvataggio di Airone è stata concepita in modo tale da aggirare quello che dovrebbe essere l’obiettivo vero del processo di de-statalizzazione dell’economia: cioè introdurre concorrenza per fare efficienza. Mentre ai contribuenti sono state accollate tutte le perdite (e il debito) del vettore tricolore, attraverso la bad company, i consumatori hanno visto precipitare tra le braccia del monopolio quello che era un mercato già scarsamente competitivo, almeno per quel che riguarda le tratte nazionali. Uno degli elementi chiave della cessione a Cai è stato infatti la sospensione dei poteri antitrust, che servono proprio a evitare che le regole del confronto competitivo vengano aggirate o annichilite. Così, si è cambiato tutto a condizione che nulla cambiasse.
Non bisogna, ciò detto, precipitare nel pessimismo. Nonostante tutte le resistenze e gli accorgimenti in senso contrario, l’uscita del Tesoro dalla compagine azionaria di Alitalia è una buona notizia, perché difficilmente i grandi cambiamenti – e questo lo è, anche se avrebbe dovuto verificarsi meglio e prima – restano senza conseguenze. Quindi, è ragionevole attendersi nel lungo termine il ristabilirsi di un contesto concorrenziale propriamente detto, anche perché le direttive europee puntano esattamente in quella direzione.
Si tratta di avere pazienza. Abbiamo sofferto tanto, soffriremo ancora. Soffriremo forse di più, perché quello scampolo di concorrenza che c’era tra Alitalia e Airone è venuto meno. Pagheremo biglietti salati. E continueremo a volare in ritardo, a perdere le connection, a ingurgitare il cibo di Big Jim coi nomi delle piazze romane in quegli squallidissimi chioschetti di Fiumicino. Continueremo a telefonare per annunciare che non aspettarmi a cena, arrivo tardi. Continueremo a fare tutto questo, ma per favore, non perdiamo noi stessi. Continuiamo a incazzarci. Non serve a nulla, ma almeno ci fa sentire vivi.
Sono le 21,34 di venerdì 30 gennaio e, assieme a qualche decina di povericristi come me, mi sto girando i pollici nell’aeroporto di Fiumicino. Ci hanno appena comunicato che il volo delle 21,25 per Genova (che avrebbe dovuto decollare nove minuti fa) è differito alle ore 22,00 (in realtà, ci faranno imbarcare in quel momento, col risultato di arrivare a destinazione con quasi un’ora di ritardo). Differito – così ha detto la gentile signorina al gate A22 per placare la rabbia di chi, a quest’ora, vorrebbe tornare da moglie e figli. La reazione dei passeggeri, puoi immaginartela. C’è il vecchietto isterico che “figgi de bagasce!”. C’è l’altro prototipo di vecchietto, quello bonaccione con una spolverata di capelli bianchi che la prende sul ridere. C’è la coscialunga in carriera, c’è il ragazzino col computer tempestato di stickers, c’è il manager che prende un appuntamento per domani mattina, ci sono tutte le gradazioni del grigio e del blu negli abiti anonimi e nelle cravatte di questa strana umanità che viaggia per lavoro e rientra in giornata (e qualcuno che azzarda combinazioni più chic, uno con cravatta salmone a righe gialle su giacca carta zucchero e camicia che ne riprende i colori). Tutti che cristonano nel telefonino, tutti che chiedono come stai a chi risponde dall’altro capo, tutti che si affollano al bar per addentare un costosissimo panino alla plastica, tutti che raccontano i pettegolezzi di oggi come se questo potesse ingannare il grande cronometro dell’universo e comprimere lo spazio che ci separa dall’ingresso sul velivolo. E invece tic toc tic toc, l’orologio gira lento come non mai. Sai cosa non c’è, se si esclude qualche isolata reazione iniziale?
Non c’è più la rabbia. Una volta, l’annuncio di un ritardo importante, soprattutto in certe giornate e in certi orari, destavano la rabbia dei passeggeri. Qualcuno urlava, qualcuno pretendeva di parlare col capo, qualcuno semplicemente diceva alla signorina al gate tutto quello che pensava di lei, della sua mamma e soprattutto della compagnia per cui lavorava. Invece, nulla. La rabbia è sparita. Gli ultimi due anni, durante i quali si è svolto il pazzesco teatrino della privatizzazione di Alitalia, hanno a tal punto fiaccato la pazienza della gente che adesso il ritardo fa parte del novero delle cose certe, assieme alla morte e le tasse. Quelli di noi che si erano illusi, nelle meno delle due settimane trascorse dall’avvio della nuova Alitalia, che quella brutta parentesi si fosse chiusa, oggi sono tornati alla realtà. E’ vero: secondo quanto ha riferito il pilota (di un volo operato da Airone, peraltro) il ritardo era dovuto all’inefficienza dei servizi aeroportuali. Però, resta il fatto che dei quattro voli che io ho preso oggi, tre erano in ritardo, quale che ne fosse la causa.
Il problema vero, in fondo, è che la manovra governativa per la privatizzazione di Alitalia e il salvataggio di Airone è stata concepita in modo tale da aggirare quello che dovrebbe essere l’obiettivo vero del processo di de-statalizzazione dell’economia: cioè introdurre concorrenza per fare efficienza. Mentre ai contribuenti sono state accollate tutte le perdite (e il debito) del vettore tricolore, attraverso la bad company, i consumatori hanno visto precipitare tra le braccia del monopolio quello che era un mercato già scarsamente competitivo, almeno per quel che riguarda le tratte nazionali. Uno degli elementi chiave della cessione a Cai è stato infatti la sospensione dei poteri antitrust, che servono proprio a evitare che le regole del confronto competitivo vengano aggirate o annichilite. Così, si è cambiato tutto a condizione che nulla cambiasse.
Non bisogna, ciò detto, precipitare nel pessimismo. Nonostante tutte le resistenze e gli accorgimenti in senso contrario, l’uscita del Tesoro dalla compagine azionaria di Alitalia è una buona notizia, perché difficilmente i grandi cambiamenti – e questo lo è, anche se avrebbe dovuto verificarsi meglio e prima – restano senza conseguenze. Quindi, è ragionevole attendersi nel lungo termine il ristabilirsi di un contesto concorrenziale propriamente detto, anche perché le direttive europee puntano esattamente in quella direzione.
Si tratta di avere pazienza. Abbiamo sofferto tanto, soffriremo ancora. Soffriremo forse di più, perché quello scampolo di concorrenza che c’era tra Alitalia e Airone è venuto meno. Pagheremo biglietti salati. E continueremo a volare in ritardo, a perdere le connection, a ingurgitare il cibo di Big Jim coi nomi delle piazze romane in quegli squallidissimi chioschetti di Fiumicino. Continueremo a telefonare per annunciare che non aspettarmi a cena, arrivo tardi. Continueremo a fare tutto questo, ma per favore, non perdiamo noi stessi. Continuiamo a incazzarci. Non serve a nulla, ma almeno ci fa sentire vivi.
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