Menomale. Anche dalle nostre parti c’è chi ha aderito alla lodevole iniziativa promossa dalla radio pubblica “M’Illumino di Meno” e alle 18.00 di oggi ha coscienziosamente spento la luce. Forse voi tre o quattro lettori non ve ne sarete nemmeno accorti, presi come siete dalla mediocrità egoista delle vostre faccenducole quotidiane come il lavoro, eppure qualcuno oggi ha scelto -anche per il bene vostro- di rinunciare alla luce in cambio dell’oscurità. Qualcuno ha premuto coraggiosamente l’interruttore, camminato a tentoni e pure incespicato per salvare voi e il pianeta che, se non lo sapete, è in pericolo. Sentitevi in colpa, spregevoli consumatori di energia. Sentitevi in colpa, famelici divoratori di watt. Sentitevi tremendamente in colpa, perché a voi pirla per guadagnare serve la corrente elettrica. Ad altri, invece, basta una campagna ecologista. E, magari, più vicino a noi, un aperitivo a lume di candela.
venerdì 13 febbraio 2009
domenica 1 febbraio 2009
Anche i passeggeri nel loro piccolo s'incazzano
Il Secolo XIX, 1 febbraio 2009
Sono le 21,34 di venerdì 30 gennaio e, assieme a qualche decina di povericristi come me, mi sto girando i pollici nell’aeroporto di Fiumicino. Ci hanno appena comunicato che il volo delle 21,25 per Genova (che avrebbe dovuto decollare nove minuti fa) è differito alle ore 22,00 (in realtà, ci faranno imbarcare in quel momento, col risultato di arrivare a destinazione con quasi un’ora di ritardo). Differito – così ha detto la gentile signorina al gate A22 per placare la rabbia di chi, a quest’ora, vorrebbe tornare da moglie e figli. La reazione dei passeggeri, puoi immaginartela. C’è il vecchietto isterico che “figgi de bagasce!”. C’è l’altro prototipo di vecchietto, quello bonaccione con una spolverata di capelli bianchi che la prende sul ridere. C’è la coscialunga in carriera, c’è il ragazzino col computer tempestato di stickers, c’è il manager che prende un appuntamento per domani mattina, ci sono tutte le gradazioni del grigio e del blu negli abiti anonimi e nelle cravatte di questa strana umanità che viaggia per lavoro e rientra in giornata (e qualcuno che azzarda combinazioni più chic, uno con cravatta salmone a righe gialle su giacca carta zucchero e camicia che ne riprende i colori). Tutti che cristonano nel telefonino, tutti che chiedono come stai a chi risponde dall’altro capo, tutti che si affollano al bar per addentare un costosissimo panino alla plastica, tutti che raccontano i pettegolezzi di oggi come se questo potesse ingannare il grande cronometro dell’universo e comprimere lo spazio che ci separa dall’ingresso sul velivolo. E invece tic toc tic toc, l’orologio gira lento come non mai. Sai cosa non c’è, se si esclude qualche isolata reazione iniziale?
Non c’è più la rabbia. Una volta, l’annuncio di un ritardo importante, soprattutto in certe giornate e in certi orari, destavano la rabbia dei passeggeri. Qualcuno urlava, qualcuno pretendeva di parlare col capo, qualcuno semplicemente diceva alla signorina al gate tutto quello che pensava di lei, della sua mamma e soprattutto della compagnia per cui lavorava. Invece, nulla. La rabbia è sparita. Gli ultimi due anni, durante i quali si è svolto il pazzesco teatrino della privatizzazione di Alitalia, hanno a tal punto fiaccato la pazienza della gente che adesso il ritardo fa parte del novero delle cose certe, assieme alla morte e le tasse. Quelli di noi che si erano illusi, nelle meno delle due settimane trascorse dall’avvio della nuova Alitalia, che quella brutta parentesi si fosse chiusa, oggi sono tornati alla realtà. E’ vero: secondo quanto ha riferito il pilota (di un volo operato da Airone, peraltro) il ritardo era dovuto all’inefficienza dei servizi aeroportuali. Però, resta il fatto che dei quattro voli che io ho preso oggi, tre erano in ritardo, quale che ne fosse la causa.
Il problema vero, in fondo, è che la manovra governativa per la privatizzazione di Alitalia e il salvataggio di Airone è stata concepita in modo tale da aggirare quello che dovrebbe essere l’obiettivo vero del processo di de-statalizzazione dell’economia: cioè introdurre concorrenza per fare efficienza. Mentre ai contribuenti sono state accollate tutte le perdite (e il debito) del vettore tricolore, attraverso la bad company, i consumatori hanno visto precipitare tra le braccia del monopolio quello che era un mercato già scarsamente competitivo, almeno per quel che riguarda le tratte nazionali. Uno degli elementi chiave della cessione a Cai è stato infatti la sospensione dei poteri antitrust, che servono proprio a evitare che le regole del confronto competitivo vengano aggirate o annichilite. Così, si è cambiato tutto a condizione che nulla cambiasse.
Non bisogna, ciò detto, precipitare nel pessimismo. Nonostante tutte le resistenze e gli accorgimenti in senso contrario, l’uscita del Tesoro dalla compagine azionaria di Alitalia è una buona notizia, perché difficilmente i grandi cambiamenti – e questo lo è, anche se avrebbe dovuto verificarsi meglio e prima – restano senza conseguenze. Quindi, è ragionevole attendersi nel lungo termine il ristabilirsi di un contesto concorrenziale propriamente detto, anche perché le direttive europee puntano esattamente in quella direzione.
Si tratta di avere pazienza. Abbiamo sofferto tanto, soffriremo ancora. Soffriremo forse di più, perché quello scampolo di concorrenza che c’era tra Alitalia e Airone è venuto meno. Pagheremo biglietti salati. E continueremo a volare in ritardo, a perdere le connection, a ingurgitare il cibo di Big Jim coi nomi delle piazze romane in quegli squallidissimi chioschetti di Fiumicino. Continueremo a telefonare per annunciare che non aspettarmi a cena, arrivo tardi. Continueremo a fare tutto questo, ma per favore, non perdiamo noi stessi. Continuiamo a incazzarci. Non serve a nulla, ma almeno ci fa sentire vivi.
Sono le 21,34 di venerdì 30 gennaio e, assieme a qualche decina di povericristi come me, mi sto girando i pollici nell’aeroporto di Fiumicino. Ci hanno appena comunicato che il volo delle 21,25 per Genova (che avrebbe dovuto decollare nove minuti fa) è differito alle ore 22,00 (in realtà, ci faranno imbarcare in quel momento, col risultato di arrivare a destinazione con quasi un’ora di ritardo). Differito – così ha detto la gentile signorina al gate A22 per placare la rabbia di chi, a quest’ora, vorrebbe tornare da moglie e figli. La reazione dei passeggeri, puoi immaginartela. C’è il vecchietto isterico che “figgi de bagasce!”. C’è l’altro prototipo di vecchietto, quello bonaccione con una spolverata di capelli bianchi che la prende sul ridere. C’è la coscialunga in carriera, c’è il ragazzino col computer tempestato di stickers, c’è il manager che prende un appuntamento per domani mattina, ci sono tutte le gradazioni del grigio e del blu negli abiti anonimi e nelle cravatte di questa strana umanità che viaggia per lavoro e rientra in giornata (e qualcuno che azzarda combinazioni più chic, uno con cravatta salmone a righe gialle su giacca carta zucchero e camicia che ne riprende i colori). Tutti che cristonano nel telefonino, tutti che chiedono come stai a chi risponde dall’altro capo, tutti che si affollano al bar per addentare un costosissimo panino alla plastica, tutti che raccontano i pettegolezzi di oggi come se questo potesse ingannare il grande cronometro dell’universo e comprimere lo spazio che ci separa dall’ingresso sul velivolo. E invece tic toc tic toc, l’orologio gira lento come non mai. Sai cosa non c’è, se si esclude qualche isolata reazione iniziale?
Non c’è più la rabbia. Una volta, l’annuncio di un ritardo importante, soprattutto in certe giornate e in certi orari, destavano la rabbia dei passeggeri. Qualcuno urlava, qualcuno pretendeva di parlare col capo, qualcuno semplicemente diceva alla signorina al gate tutto quello che pensava di lei, della sua mamma e soprattutto della compagnia per cui lavorava. Invece, nulla. La rabbia è sparita. Gli ultimi due anni, durante i quali si è svolto il pazzesco teatrino della privatizzazione di Alitalia, hanno a tal punto fiaccato la pazienza della gente che adesso il ritardo fa parte del novero delle cose certe, assieme alla morte e le tasse. Quelli di noi che si erano illusi, nelle meno delle due settimane trascorse dall’avvio della nuova Alitalia, che quella brutta parentesi si fosse chiusa, oggi sono tornati alla realtà. E’ vero: secondo quanto ha riferito il pilota (di un volo operato da Airone, peraltro) il ritardo era dovuto all’inefficienza dei servizi aeroportuali. Però, resta il fatto che dei quattro voli che io ho preso oggi, tre erano in ritardo, quale che ne fosse la causa.
Il problema vero, in fondo, è che la manovra governativa per la privatizzazione di Alitalia e il salvataggio di Airone è stata concepita in modo tale da aggirare quello che dovrebbe essere l’obiettivo vero del processo di de-statalizzazione dell’economia: cioè introdurre concorrenza per fare efficienza. Mentre ai contribuenti sono state accollate tutte le perdite (e il debito) del vettore tricolore, attraverso la bad company, i consumatori hanno visto precipitare tra le braccia del monopolio quello che era un mercato già scarsamente competitivo, almeno per quel che riguarda le tratte nazionali. Uno degli elementi chiave della cessione a Cai è stato infatti la sospensione dei poteri antitrust, che servono proprio a evitare che le regole del confronto competitivo vengano aggirate o annichilite. Così, si è cambiato tutto a condizione che nulla cambiasse.
Non bisogna, ciò detto, precipitare nel pessimismo. Nonostante tutte le resistenze e gli accorgimenti in senso contrario, l’uscita del Tesoro dalla compagine azionaria di Alitalia è una buona notizia, perché difficilmente i grandi cambiamenti – e questo lo è, anche se avrebbe dovuto verificarsi meglio e prima – restano senza conseguenze. Quindi, è ragionevole attendersi nel lungo termine il ristabilirsi di un contesto concorrenziale propriamente detto, anche perché le direttive europee puntano esattamente in quella direzione.
Si tratta di avere pazienza. Abbiamo sofferto tanto, soffriremo ancora. Soffriremo forse di più, perché quello scampolo di concorrenza che c’era tra Alitalia e Airone è venuto meno. Pagheremo biglietti salati. E continueremo a volare in ritardo, a perdere le connection, a ingurgitare il cibo di Big Jim coi nomi delle piazze romane in quegli squallidissimi chioschetti di Fiumicino. Continueremo a telefonare per annunciare che non aspettarmi a cena, arrivo tardi. Continueremo a fare tutto questo, ma per favore, non perdiamo noi stessi. Continuiamo a incazzarci. Non serve a nulla, ma almeno ci fa sentire vivi.
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mercoledì 28 gennaio 2009
Cambiano le relazioni industriali. Accettare o subire?
Sul Secolo XIX di oggi, il lettore Davide Erculei se la prende con un mio editoriale di un paio di giorni fa, nel quale avevo commentato positivamente l'accordo sulla riforma del modello contrattuale (e negativamente l'opposizione della Cgil). Secondo Erculei, io sarei "lontano dalla triste realtà dei lavoratori dipendenti" perché sopravvaluterei la disponibilità delle aziende a "un confronto di secondo livello con le parti sociali". Inoltre, io sostenevo che sia un segno di modernità procedere verso un contratto ritagliato sempre più sulle caratteristiche individuali del lavoratore e dell'azienda: la posizione contraria del sindacato di Guglielmo Epifani sarebbe invece, secondo Erculei, "difendere il singolo dal ricatto del datore di lavoro". Quindi, ciò che per me è modernità "è una non cultura voluta e imposta dai potenti, avallata dai media, che ha come unico scopo quello di trasformare persone con un pensiero critico e proprio in dipendenti asserviti e disponibili per le ore lavorative e consumatori di beni inutili nelle restanti". Quanta grazia! A parte che il consumo di "beni inutili" è esattamente ciò che consente alle "persone con un pensiero critico e proprio" di lavorare - no domanda, no lavoro baby - questo discorso mi sembra del tutto astratto e campato in aria. Se mai è stato vero che la sindacalizzazione ha prodotto un miglioramento delle condizioni dei lavoratori (almeno nel dopoguerra, mi sembra ci sia una certa evidenza del contrario, ma sorvoliamo) oggi non lo è più. E' completamente cambiato il modello economico, sono mutate le esigenze di imprese e lavoratori, è diverso il contesto internazionale. Nella moderna economia, cioè, è sempre più importante il "capitale umano", cioè gli investimenti che il lavoratore sa fare su se stesso, e quindi la sua professionalità, capacità, impegno e inventiva. Certo, esistono professioni per cui questo è marginalmente vero o non lo è del tutto, e al massimo si potrebbe sostenere il mantenimento del vecchio modello per queste (cosa su cui ho dei dubbi). La generalità dei mestieri, però, si fonda ormai sulla prestazione individuale, e questo fa sì che il modello di relazioni più efficiente sia quello che sa valorizzare queso tipo di impegno. Il lavoratore non va ricompensato per le ore che passa tra una timbrata e l'altra del cartellino, ma per il valore che sa creare - cioè per la sua produttività. Mi sembra un grande passo avanti il fatto che il governo abbia saputo e voluto percorrere questa strada, e che una parte significativa del fronte sindacale (così come dell'opposizione) abbia deciso di giocare questa partita. In un certo senso, la posizione della Cgil ne dimostra la correttezza: nessuna vera riforma può mai avvenire senza scontentare qualcuno.
domenica 25 gennaio 2009
Come Cuba
Non commento queste idiozie. Le segnalo perché sono troppo divertenti.
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venerdì 23 gennaio 2009
Non c'entra la moschea. C'entra la libertà individuale
Il Secolo XIX, 23 gennaio 2009
Moschea sì o moschea no? Il semplice porre questa domanda è indice di due cose: la nostra inciviltà politica e la debolezza della nostra fede. Che è come dire, la scarsa convinzione con cui chi si definisce cristiano crede in Dio, e la precarietà del principio della libertà individuale nella nostra cultura. Perché la risposta più ovvia e banale sarebbe: non sono fatti nostri. Non c’è nulla di più privato della fede.
Se però bisogna buttarla in politica, vale la pena ricordare che, concettualmente, una moschea, una chiesa, una palestra o una discoteca non sono oggetti molto diversi. Sono luoghi dove, periodicamente, gruppi di persone si riuniscono per farsi i fatti loro – inginocchiati di fronte alla Croce, sdraiati verso la Mecca o arrampicati su una pertica, poco conta. Qualunque immobile deve rispettare molte (troppe) norme: edilizie, urbanistiche, igienico-sanitarie, e così via. Nella misura in cui esso è adeguato, non esiste un motivo al mondo per cui casi simili dovrebbero essere trattati in modo diverso. Alcuni ritengono, tuttavia, che una moschea appartenga a una fattispecie diversa, poiché dentro di essa può crearsi il brodo di coltura per il terrorismo. E’ un argomento legittimo? E, in subordine, è utile?
Per certi versi, è una questione di estrema complessità, rispetto alla quale risulta difficile generalizzare. Quel che si può affermare è che, per quanto possa essere vicino al vero che tutti (o gran parte) i terroristi sono di religione musulmana, è totalmente ed evidentemente falso che tutti gli islamici siano terroristi. Accreditare questa tesi può servire solo a spingere fra le braccia dei terroristi individui che, altrimenti, sarebbero forse contrari o indifferenti. Si dirà: di fronte a un fenomeno drammatico come il terrorismo non si può restare indifferenti. Sarà vero. Pragmaticamente, però, l’indifferenza è un’attitudine migliore del sostegno. E di fronte all’indecisione, logica vorrebbe uno sforzo per tirare tali persone da questa parte, anziché cacciarle dall’altra.
Non c’è, insomma, dal punto di vista politico, una solida ragione per opporsi alla realizzazione di una moschea, purché essa sia compatibile con le normative in vigore, non crei disagi eccessivi (non in quanto moschea, ma in quanto luogo aperto al pubblico), e non diventi vivaio di attività illecite (cosa, però, che potrà essere verificata solo ex post). Vi sono, piuttosto, ottimi motivi per considerare sintomo di barbarie – e un sintomo pericoloso – le posizioni di chi si appiglia a cavilli legali, o addirittura vuole introdurli, per ostacolare l’apertura di uno spazio destinato ai musulmani (o i cristiani, gli ebrei, i buddisti, gli atei). Vi è, anzitutto, un aspetto sostanziale: le libertà religiosa, di parola e di associazione si svuotano, se poi si impedisce a chi intende utilizzarle di trovare un modo appropriato di farlo. Ciò non significa che non si debba rintracciare un forte nesso tra questi diritti e quello, più centrale, alla proprietà privata: ognuno dovrebbe avere il diritto di fare e dire quel che gli pare, e il dovere di sostenere le spese eventualmente necessarie. Cioè, la vera assurdità del pendolo italiano sta nel suo continuo oscillare tra l’intolleranza e il sussidio pubblico alla costruzione di nuovi luoghi di culto, come se fosse impossibile trovare l’equilibrio nel fatto che ciascuno è padrone a casa propria (compresi gli islamici negli edifici che decidono di acquistare e utilizzare come loro casa, o chiesa, che è lo stesso).
Una comune obiezione è che nei paesi islamici, o in molti di essi, non esiste alcuna forma di reciprocità, nei confronti dei cristiani. E allora? La libertà non può essere condizionata. Essa è un valore che, se pure non è rispettato ovunque e sempre, dovrebbe almeno essere protetto qui e ora. Del resto, con quale forza e con quale credibilità si possono criticare gli altri, se poi ci si comporta in modo del tutto analogo? E con quale coraggio si può vantare la superiorità del modello occidentale, se poi lo si sacrifica per così poco? Il modello occidentale, tra parentesi, si regge su una cosa soltanto: l’esistenza (o presunta tale) di un governo delle leggi anziché un governo degli uomini. Di un sistema, cioè, forte della sua capacità di non discriminare: che tratta allo stesso modo istanze uguali. Se invece si sceglie il doppio standard, si rischia di aprire un vaso di Pandora da cui molti mali possono uscire. Il passaggio dal precetto evangelico “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te” alla sua perversione statalista, “fai agli altri quello che fanno a te”, è segno deprimente della piega che il dibattito può prendere. La religione è privatissima, perché di mezzo c’è il dialogo tra l’uomo e Dio: se c’è uno spazio da cui la politica dovrebbe essere bandita, è proprio questo.
E’ abbastanza inquietante, in tale prospettiva, la posizione espressa dal cardinale di Torino, Severino Poletto, contrario alla costruzione di minareti (che sono un elemento importante della moschea) “almeno fino a quando le nostre città saranno abitate in grande prevalenza da cattolici”. E’ inquietante perché viene da chiedersi dove potrebbe portare questa logica, se mai le nostre città cesseranno di avere una popolazione prevalentemente cristiana. E’ inquietante perché, in pratica, legittima le norme anticristiane dei paesi abitati “in grande prevalenza” da musulmani. Ed è inquietante, infine e soprattutto, per chi crede ancora che l’uomo morto sulla croce fosse il figlio di Dio. Davvero la sua chiesa ha perso la fede a tal punto, da spaventarsi per un minareto nella città che volle la Madonna per regina?
Moschea sì o moschea no? Il semplice porre questa domanda è indice di due cose: la nostra inciviltà politica e la debolezza della nostra fede. Che è come dire, la scarsa convinzione con cui chi si definisce cristiano crede in Dio, e la precarietà del principio della libertà individuale nella nostra cultura. Perché la risposta più ovvia e banale sarebbe: non sono fatti nostri. Non c’è nulla di più privato della fede.
Se però bisogna buttarla in politica, vale la pena ricordare che, concettualmente, una moschea, una chiesa, una palestra o una discoteca non sono oggetti molto diversi. Sono luoghi dove, periodicamente, gruppi di persone si riuniscono per farsi i fatti loro – inginocchiati di fronte alla Croce, sdraiati verso la Mecca o arrampicati su una pertica, poco conta. Qualunque immobile deve rispettare molte (troppe) norme: edilizie, urbanistiche, igienico-sanitarie, e così via. Nella misura in cui esso è adeguato, non esiste un motivo al mondo per cui casi simili dovrebbero essere trattati in modo diverso. Alcuni ritengono, tuttavia, che una moschea appartenga a una fattispecie diversa, poiché dentro di essa può crearsi il brodo di coltura per il terrorismo. E’ un argomento legittimo? E, in subordine, è utile?
Per certi versi, è una questione di estrema complessità, rispetto alla quale risulta difficile generalizzare. Quel che si può affermare è che, per quanto possa essere vicino al vero che tutti (o gran parte) i terroristi sono di religione musulmana, è totalmente ed evidentemente falso che tutti gli islamici siano terroristi. Accreditare questa tesi può servire solo a spingere fra le braccia dei terroristi individui che, altrimenti, sarebbero forse contrari o indifferenti. Si dirà: di fronte a un fenomeno drammatico come il terrorismo non si può restare indifferenti. Sarà vero. Pragmaticamente, però, l’indifferenza è un’attitudine migliore del sostegno. E di fronte all’indecisione, logica vorrebbe uno sforzo per tirare tali persone da questa parte, anziché cacciarle dall’altra.
Non c’è, insomma, dal punto di vista politico, una solida ragione per opporsi alla realizzazione di una moschea, purché essa sia compatibile con le normative in vigore, non crei disagi eccessivi (non in quanto moschea, ma in quanto luogo aperto al pubblico), e non diventi vivaio di attività illecite (cosa, però, che potrà essere verificata solo ex post). Vi sono, piuttosto, ottimi motivi per considerare sintomo di barbarie – e un sintomo pericoloso – le posizioni di chi si appiglia a cavilli legali, o addirittura vuole introdurli, per ostacolare l’apertura di uno spazio destinato ai musulmani (o i cristiani, gli ebrei, i buddisti, gli atei). Vi è, anzitutto, un aspetto sostanziale: le libertà religiosa, di parola e di associazione si svuotano, se poi si impedisce a chi intende utilizzarle di trovare un modo appropriato di farlo. Ciò non significa che non si debba rintracciare un forte nesso tra questi diritti e quello, più centrale, alla proprietà privata: ognuno dovrebbe avere il diritto di fare e dire quel che gli pare, e il dovere di sostenere le spese eventualmente necessarie. Cioè, la vera assurdità del pendolo italiano sta nel suo continuo oscillare tra l’intolleranza e il sussidio pubblico alla costruzione di nuovi luoghi di culto, come se fosse impossibile trovare l’equilibrio nel fatto che ciascuno è padrone a casa propria (compresi gli islamici negli edifici che decidono di acquistare e utilizzare come loro casa, o chiesa, che è lo stesso).
Una comune obiezione è che nei paesi islamici, o in molti di essi, non esiste alcuna forma di reciprocità, nei confronti dei cristiani. E allora? La libertà non può essere condizionata. Essa è un valore che, se pure non è rispettato ovunque e sempre, dovrebbe almeno essere protetto qui e ora. Del resto, con quale forza e con quale credibilità si possono criticare gli altri, se poi ci si comporta in modo del tutto analogo? E con quale coraggio si può vantare la superiorità del modello occidentale, se poi lo si sacrifica per così poco? Il modello occidentale, tra parentesi, si regge su una cosa soltanto: l’esistenza (o presunta tale) di un governo delle leggi anziché un governo degli uomini. Di un sistema, cioè, forte della sua capacità di non discriminare: che tratta allo stesso modo istanze uguali. Se invece si sceglie il doppio standard, si rischia di aprire un vaso di Pandora da cui molti mali possono uscire. Il passaggio dal precetto evangelico “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te” alla sua perversione statalista, “fai agli altri quello che fanno a te”, è segno deprimente della piega che il dibattito può prendere. La religione è privatissima, perché di mezzo c’è il dialogo tra l’uomo e Dio: se c’è uno spazio da cui la politica dovrebbe essere bandita, è proprio questo.
E’ abbastanza inquietante, in tale prospettiva, la posizione espressa dal cardinale di Torino, Severino Poletto, contrario alla costruzione di minareti (che sono un elemento importante della moschea) “almeno fino a quando le nostre città saranno abitate in grande prevalenza da cattolici”. E’ inquietante perché viene da chiedersi dove potrebbe portare questa logica, se mai le nostre città cesseranno di avere una popolazione prevalentemente cristiana. E’ inquietante perché, in pratica, legittima le norme anticristiane dei paesi abitati “in grande prevalenza” da musulmani. Ed è inquietante, infine e soprattutto, per chi crede ancora che l’uomo morto sulla croce fosse il figlio di Dio. Davvero la sua chiesa ha perso la fede a tal punto, da spaventarsi per un minareto nella città che volle la Madonna per regina?
sabato 17 gennaio 2009
Le infrastrutture contro la recessione?
Segnalo questo convegno che la Maona organizza lunedì 19, a Genova, sul ruolo che gli investimenti infrastrutturali possono giocare contro la recessione. Il tema che vorrei sollevare è che sarebbe sbagliato considerare questo tipo di investimenti sotto una luce congiunturale. Sebbene essi possano contribuire a uscire dalla fase negativa del ciclo, è importante evitare di sacrificare il domani all'oggi; è essenziale, cioè, fare gli investimenti corretti nel modo giusto. Cattedrali nel deserto, ne abbiamo già troppe.
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martedì 13 gennaio 2009
AAA Andate a lavorare
Leggo, tra lo stupido e il divertito, che l'Onda - il movimento di protesta nato per combattere la riforma Gelmini - ha chiesto all'Università di Genova "un luogo dove organizzare la protesta in modo da potersi concentrare sui contenuti delle attività senza per forza dover essere etichettati come occupanti". I ragazzi della "assemblea permanente delle facoltà in lotta" (mi fanno venire tanto in mente una vecchia battuta: rivoluzione sospesa per pioggia) avrebbero addirittura individuato la location. Mi fa molto sorridere la richiesta: dateci uno spazio (gratuito, naturalmente), sennò saremo costretti a occupare. Come dire: dammi i soldi che hai il portafoglio, sennò mi tocca derubarti. Ragazzi, lottate di meno e studiate di più, o lavorate di più. Ma risparmiateci di prenderci e prendervi per il culo.
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