Il Secolo XIX, 23 gennaio 2009
Moschea sì o moschea no? Il semplice porre questa domanda è indice di due cose: la nostra inciviltà politica e la debolezza della nostra fede. Che è come dire, la scarsa convinzione con cui chi si definisce cristiano crede in Dio, e la precarietà del principio della libertà individuale nella nostra cultura. Perché la risposta più ovvia e banale sarebbe: non sono fatti nostri. Non c’è nulla di più privato della fede.
Se però bisogna buttarla in politica, vale la pena ricordare che, concettualmente, una moschea, una chiesa, una palestra o una discoteca non sono oggetti molto diversi. Sono luoghi dove, periodicamente, gruppi di persone si riuniscono per farsi i fatti loro – inginocchiati di fronte alla Croce, sdraiati verso la Mecca o arrampicati su una pertica, poco conta. Qualunque immobile deve rispettare molte (troppe) norme: edilizie, urbanistiche, igienico-sanitarie, e così via. Nella misura in cui esso è adeguato, non esiste un motivo al mondo per cui casi simili dovrebbero essere trattati in modo diverso. Alcuni ritengono, tuttavia, che una moschea appartenga a una fattispecie diversa, poiché dentro di essa può crearsi il brodo di coltura per il terrorismo. E’ un argomento legittimo? E, in subordine, è utile?
Per certi versi, è una questione di estrema complessità, rispetto alla quale risulta difficile generalizzare. Quel che si può affermare è che, per quanto possa essere vicino al vero che tutti (o gran parte) i terroristi sono di religione musulmana, è totalmente ed evidentemente falso che tutti gli islamici siano terroristi. Accreditare questa tesi può servire solo a spingere fra le braccia dei terroristi individui che, altrimenti, sarebbero forse contrari o indifferenti. Si dirà: di fronte a un fenomeno drammatico come il terrorismo non si può restare indifferenti. Sarà vero. Pragmaticamente, però, l’indifferenza è un’attitudine migliore del sostegno. E di fronte all’indecisione, logica vorrebbe uno sforzo per tirare tali persone da questa parte, anziché cacciarle dall’altra.
Non c’è, insomma, dal punto di vista politico, una solida ragione per opporsi alla realizzazione di una moschea, purché essa sia compatibile con le normative in vigore, non crei disagi eccessivi (non in quanto moschea, ma in quanto luogo aperto al pubblico), e non diventi vivaio di attività illecite (cosa, però, che potrà essere verificata solo ex post). Vi sono, piuttosto, ottimi motivi per considerare sintomo di barbarie – e un sintomo pericoloso – le posizioni di chi si appiglia a cavilli legali, o addirittura vuole introdurli, per ostacolare l’apertura di uno spazio destinato ai musulmani (o i cristiani, gli ebrei, i buddisti, gli atei). Vi è, anzitutto, un aspetto sostanziale: le libertà religiosa, di parola e di associazione si svuotano, se poi si impedisce a chi intende utilizzarle di trovare un modo appropriato di farlo. Ciò non significa che non si debba rintracciare un forte nesso tra questi diritti e quello, più centrale, alla proprietà privata: ognuno dovrebbe avere il diritto di fare e dire quel che gli pare, e il dovere di sostenere le spese eventualmente necessarie. Cioè, la vera assurdità del pendolo italiano sta nel suo continuo oscillare tra l’intolleranza e il sussidio pubblico alla costruzione di nuovi luoghi di culto, come se fosse impossibile trovare l’equilibrio nel fatto che ciascuno è padrone a casa propria (compresi gli islamici negli edifici che decidono di acquistare e utilizzare come loro casa, o chiesa, che è lo stesso).
Una comune obiezione è che nei paesi islamici, o in molti di essi, non esiste alcuna forma di reciprocità, nei confronti dei cristiani. E allora? La libertà non può essere condizionata. Essa è un valore che, se pure non è rispettato ovunque e sempre, dovrebbe almeno essere protetto qui e ora. Del resto, con quale forza e con quale credibilità si possono criticare gli altri, se poi ci si comporta in modo del tutto analogo? E con quale coraggio si può vantare la superiorità del modello occidentale, se poi lo si sacrifica per così poco? Il modello occidentale, tra parentesi, si regge su una cosa soltanto: l’esistenza (o presunta tale) di un governo delle leggi anziché un governo degli uomini. Di un sistema, cioè, forte della sua capacità di non discriminare: che tratta allo stesso modo istanze uguali. Se invece si sceglie il doppio standard, si rischia di aprire un vaso di Pandora da cui molti mali possono uscire. Il passaggio dal precetto evangelico “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te” alla sua perversione statalista, “fai agli altri quello che fanno a te”, è segno deprimente della piega che il dibattito può prendere. La religione è privatissima, perché di mezzo c’è il dialogo tra l’uomo e Dio: se c’è uno spazio da cui la politica dovrebbe essere bandita, è proprio questo.
E’ abbastanza inquietante, in tale prospettiva, la posizione espressa dal cardinale di Torino, Severino Poletto, contrario alla costruzione di minareti (che sono un elemento importante della moschea) “almeno fino a quando le nostre città saranno abitate in grande prevalenza da cattolici”. E’ inquietante perché viene da chiedersi dove potrebbe portare questa logica, se mai le nostre città cesseranno di avere una popolazione prevalentemente cristiana. E’ inquietante perché, in pratica, legittima le norme anticristiane dei paesi abitati “in grande prevalenza” da musulmani. Ed è inquietante, infine e soprattutto, per chi crede ancora che l’uomo morto sulla croce fosse il figlio di Dio. Davvero la sua chiesa ha perso la fede a tal punto, da spaventarsi per un minareto nella città che volle la Madonna per regina?
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