mercoledì 31 dicembre 2008
Buon Anno
IlTigullio.info è nato pochi mesi fa. E' ancora presto per fare un bilancio. Avremmo potuto fare di più e meglio. Però qualcosa abbiamo fatto. Per quel che ne so, è la prima volta che una voce liberista "esiste" a livello locale. Abbiamo cercato di commentare le notizie del territorio con uno sguardo che non abbiamo paura di definire ideologico. Cercheremo, nel 2009, di farlo ancora e di farlo con più convinzione. Il cambiamento nasce sulla porta di casa.
sabato 27 dicembre 2008
A Sestri Levante Babbo Natale porta un baraccone pubblico
Il Secolo XIX, 27 dicembre 2008
Il primo carrozzone pubblico del 2009 nascerà a Sestri Levante? Lo sapremo lunedì, quando il consiglio comunale dovrà discutere una delibera volta ad “assicurare il controllo pubblico… su tutte le attività e le strutture in ambito portuale”, compresi forse i servizi strettamente commerciali. A tal fine, è prevista la creazione di un “soggetto giuridico societario costituito dal comune e da esso controllato attraverso la proprietà maggioritaria del relativo capitale azionario”, le cui attività dovranno “garantire comunque all’amministrazione pubblica una quota adeguata del reddito prodotto dall’utilizzazione dei beni pubblici demaniali”. Queste poche righe sono un concentrato del male che caratterizza l’erogazione dei servizi pubblici in Italia, e che li rende più costosi e meno efficienti. In pratica, la giunta guidata da Andrea Lavarello vuole creare una nuova società controllata dal comune, che dovrebbe al tempo stesso gestire – presumibilmente in affidamento diretto – tutte le concessioni e i servizi portuali, e fornire all’erario entrate sufficienti. Cioè, il progetto di fondo è quello di cancellare ogni forma di possibile concorrenza, istituendo una tassa occulta sulle attività portuali.
La nuova società si andrebbe ad aggiungere alle cinque già partecipate dal comune di Sestri Levante (che ha meno di ventimila abitanti), tra cui Stella Polare (che gestisce la casa di riposo e la farmacia) e Fondazione Mediaterraneo (il cui scopo è la “promozione della ricerca avanzata e la diffusione della cultura della comunicazione, intesa come scambio di informazioni che utilizzino tutti i media, dalla parola, alla carta stampata, fino alle più avanzate tecnologie telematiche”, cioè macina soldi pubblici e produce chiacchiera privata). Non c’è nulla, ma proprio nulla, che sia oggi fatto da queste realtà e che non possa essere svolto meglio da soggetti privati in regime competitivo.
La delibera della giunta di Sestri Levante sostiene che “evidentemente” un soggetto privato non sarebbe in grado di svolgere propriamente tutte le funzioni richieste, ma poi richiede che la nuova compagnia pubblica fornisca al comune un sufficiente flusso di cassa: cioè, l’obiettivo non è minimizzare il costo per il consumatore, ma massimizzare il reddito per il comune. E’ il più classico degli esempi di rendita da monopolio. L’unica differenza tra un monopolio privato (garantito dalla legge) e uno pubblico è che nel primo la rendita si trasforma, generalmente, quasi integralmente in extraprofitti, mentre nel secondo si ripartisce tra extraprofitti e inefficienze (per esempio, livelli occupazionali eccessivi).
Quella di cancellare la competizione per occupare un mercato non è, purtroppo, un’abitudine del solo comune di Sestri Levante. Un’inchiesta di un paio di anni fa del Liguria Business Journal ha mostrato come le società controllate dal comune di Genova abbiano un fatturato complessivo di più di un miliardo di euro e occupino quasi settemila persone; il comune della Spezia partecipa a quarantasei diverse società, Savona undici, Imperia dodici, Chiavari quattro. Sul sito della provincia di Genova vengono censite ventiquattro partecipazioni, mentre la Regione Liguria partecipa direttamente a tre consorzi e otto aziende, tra cui la Filse, una holding che ha in pancia una pluralità di altre compagnie.
Quando va bene, questi soggetti introducono inefficienze sul mercato o ne estraggono rendite a favore dell’azionista pubblico; quando va male, sono veicoli fuori bilancio utilizzati per nascondere i puffi delle amministrazioni o come strumenti clientelari. In ogni caso, quel che davvero conta non è se appartengano, individualmente, all’una o all’altra categoria: il semplice fatto che possano appartenere alla seconda, e che comunque non arrechino alcun beneficio al consumatore, dovrebbe essere più che sufficiente ad abbandonare questa forma di controllo dell’economia. Nella maggior parte dei casi, poi, queste società non sono quotate a Piazza Affari, e dunque non hanno neppure quel minimo di disciplina finanziaria che è imposta dalle regole della borsa.
Il bello è che tutte le parti politiche dicono di voler porre fine allo “statalismo municipale”: ci ha provato, nella scorsa legislatura, il ministro degli Affari regionali, Linda Lanzillotta, con un disegno di legge che avrebbe abolito l’affidamento diretto (e dunque fatto venir meno l’incentivo a costituire società di comodo). Il progetto fu affossato dall’opposizione ideologica di Rifondazione comunista, Comunisti italiani e verdi. All’indomani delle elezioni 2008, il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, avanzò un’idea simile, che era in parte contenuta nella finanziaria, ma che venne subito neutralizzata su opportunistica richiesta della Lega (che nei suoi comuni gestisce molte e ricche municipalizzate). Se in Parlamento sono le ali estreme a fare il lavoro sporco, a quanto pare in periferia le cose vanno diversamente. I sindaci, di qualunque colore essi siano, se ne fregano delle liberalizzazioni e vanno avanti per la loro strada. Il primo cittadino di Sestri Levante, Lavarello, appartiene al Partito democratico come Lanzillotta, ma si comporta coerentemente con le indicazioni dell’asse comunista-leghista. Lo stesso fanno altri sindaci del Pd e del Pdl. L’assalto al portafoglio dei consumatori e l’istinto al controllo pubblico dell’economia sono, quasi per definizione, bipartisan.
Il primo carrozzone pubblico del 2009 nascerà a Sestri Levante? Lo sapremo lunedì, quando il consiglio comunale dovrà discutere una delibera volta ad “assicurare il controllo pubblico… su tutte le attività e le strutture in ambito portuale”, compresi forse i servizi strettamente commerciali. A tal fine, è prevista la creazione di un “soggetto giuridico societario costituito dal comune e da esso controllato attraverso la proprietà maggioritaria del relativo capitale azionario”, le cui attività dovranno “garantire comunque all’amministrazione pubblica una quota adeguata del reddito prodotto dall’utilizzazione dei beni pubblici demaniali”. Queste poche righe sono un concentrato del male che caratterizza l’erogazione dei servizi pubblici in Italia, e che li rende più costosi e meno efficienti. In pratica, la giunta guidata da Andrea Lavarello vuole creare una nuova società controllata dal comune, che dovrebbe al tempo stesso gestire – presumibilmente in affidamento diretto – tutte le concessioni e i servizi portuali, e fornire all’erario entrate sufficienti. Cioè, il progetto di fondo è quello di cancellare ogni forma di possibile concorrenza, istituendo una tassa occulta sulle attività portuali.
La nuova società si andrebbe ad aggiungere alle cinque già partecipate dal comune di Sestri Levante (che ha meno di ventimila abitanti), tra cui Stella Polare (che gestisce la casa di riposo e la farmacia) e Fondazione Mediaterraneo (il cui scopo è la “promozione della ricerca avanzata e la diffusione della cultura della comunicazione, intesa come scambio di informazioni che utilizzino tutti i media, dalla parola, alla carta stampata, fino alle più avanzate tecnologie telematiche”, cioè macina soldi pubblici e produce chiacchiera privata). Non c’è nulla, ma proprio nulla, che sia oggi fatto da queste realtà e che non possa essere svolto meglio da soggetti privati in regime competitivo.
La delibera della giunta di Sestri Levante sostiene che “evidentemente” un soggetto privato non sarebbe in grado di svolgere propriamente tutte le funzioni richieste, ma poi richiede che la nuova compagnia pubblica fornisca al comune un sufficiente flusso di cassa: cioè, l’obiettivo non è minimizzare il costo per il consumatore, ma massimizzare il reddito per il comune. E’ il più classico degli esempi di rendita da monopolio. L’unica differenza tra un monopolio privato (garantito dalla legge) e uno pubblico è che nel primo la rendita si trasforma, generalmente, quasi integralmente in extraprofitti, mentre nel secondo si ripartisce tra extraprofitti e inefficienze (per esempio, livelli occupazionali eccessivi).
Quella di cancellare la competizione per occupare un mercato non è, purtroppo, un’abitudine del solo comune di Sestri Levante. Un’inchiesta di un paio di anni fa del Liguria Business Journal ha mostrato come le società controllate dal comune di Genova abbiano un fatturato complessivo di più di un miliardo di euro e occupino quasi settemila persone; il comune della Spezia partecipa a quarantasei diverse società, Savona undici, Imperia dodici, Chiavari quattro. Sul sito della provincia di Genova vengono censite ventiquattro partecipazioni, mentre la Regione Liguria partecipa direttamente a tre consorzi e otto aziende, tra cui la Filse, una holding che ha in pancia una pluralità di altre compagnie.
Quando va bene, questi soggetti introducono inefficienze sul mercato o ne estraggono rendite a favore dell’azionista pubblico; quando va male, sono veicoli fuori bilancio utilizzati per nascondere i puffi delle amministrazioni o come strumenti clientelari. In ogni caso, quel che davvero conta non è se appartengano, individualmente, all’una o all’altra categoria: il semplice fatto che possano appartenere alla seconda, e che comunque non arrechino alcun beneficio al consumatore, dovrebbe essere più che sufficiente ad abbandonare questa forma di controllo dell’economia. Nella maggior parte dei casi, poi, queste società non sono quotate a Piazza Affari, e dunque non hanno neppure quel minimo di disciplina finanziaria che è imposta dalle regole della borsa.
Il bello è che tutte le parti politiche dicono di voler porre fine allo “statalismo municipale”: ci ha provato, nella scorsa legislatura, il ministro degli Affari regionali, Linda Lanzillotta, con un disegno di legge che avrebbe abolito l’affidamento diretto (e dunque fatto venir meno l’incentivo a costituire società di comodo). Il progetto fu affossato dall’opposizione ideologica di Rifondazione comunista, Comunisti italiani e verdi. All’indomani delle elezioni 2008, il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, avanzò un’idea simile, che era in parte contenuta nella finanziaria, ma che venne subito neutralizzata su opportunistica richiesta della Lega (che nei suoi comuni gestisce molte e ricche municipalizzate). Se in Parlamento sono le ali estreme a fare il lavoro sporco, a quanto pare in periferia le cose vanno diversamente. I sindaci, di qualunque colore essi siano, se ne fregano delle liberalizzazioni e vanno avanti per la loro strada. Il primo cittadino di Sestri Levante, Lavarello, appartiene al Partito democratico come Lanzillotta, ma si comporta coerentemente con le indicazioni dell’asse comunista-leghista. Lo stesso fanno altri sindaci del Pd e del Pdl. L’assalto al portafoglio dei consumatori e l’istinto al controllo pubblico dell’economia sono, quasi per definizione, bipartisan.
mercoledì 24 dicembre 2008
Abolizione delle province. Il presidente della provincia dice no
Il presidente della provincia di Genova, Alessandro Repetto, ha difeso con forza l'istituzione provinciale. Ha contestato la cifra di 15 miliardi - che secondo lo studio dell'IBL rappresenta il costo delle province - e rilanciato sull'utilità di questi enti. Andiamo con ordine. E' ovvio che l'abolizione delle province non porterebbe a un risparmio secco di 15 miliardi (che sono un'enormità: stiamo parlando di un punto percentuale di Pil). Porterebbe a un risparmio secco molto più basso (quello corrispondente al "costo politico" delle province, cioè agli stipendi e al mantenimento delle strutture al servizio di giunte e consigli) ma, nel medio termine, il risparmio si avvicinerebbe ai 15 miliardi. Infatti, parte degli edifici potrebbero essere ceduti, alcuni contratti di affitto potrebbero essere interrotti, e il personale potrebbe essere riallocato e gradualmente assorbito in altre pubbliche amministrazioni, con una riduzione netta degli occupati nel settore pubblico. Dopo di che, l'elemento centrale della difesa di Repetto - che cioè le province servono perché svolgono funzioni di raccordo - ci sta come i cavoli a merenda. Nessuno dice, e certo non noi, che quelle funzioni non siano importanti. Diciamo solo, e più banalmente, che non sta scritto nella Bibbia che debbano essere svolte da una "cosa" chiamata provincia. Possono essere largamente trasferite a comuni e regioni, e in certa misura assegnate a "consorzi" tra comuni che "fanno scala". Al limite, si potrebbero anche mantenere le province (sort of) trasformandole in enti di secondo grado. Sono mille le cose che si possono fare e centomila i miglioramenti che si possono apportare al nostro (e ad altri) progetti. Quello che bisogna evitare è mantenere lo status quo.
sabato 20 dicembre 2008
Shameless self promotion
Su Corfole mio pezzo sul protezionismo dell'aperitivo, sul Secolo XIX editoriale sull'abolizione delle province.
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giovedì 18 dicembre 2008
Bad news
No. Il vostro presentimento non era infondato. La Liguria è la regione italiana con la più alta pressione fiscale procapite.
mercoledì 17 dicembre 2008
La sanità pubblica degli orrori
Quest'estate una violentissima campagna mediatica si è abbattuta sulle cliniche private, a causa del comportamento opportunistico di alcune di esse che truffavano la sanità pubblica eseguendo interventi minori non necessari. Il fatto è in sè gravissimo, ma ancora più gravi sono alcuni atti compiuti dalle strutture pubbliche, che invece non sono oggetto di analoga sanzione sociale, e che hanno portato alla morte di incolpevoli povericristi. Ultima in ordine di tempo, è la vicenda del povero Giovanni Fasce, 64 anni, morto proprio davanti all'ospedale Galliera. I presunti misfatti degli ospedali privati sono, se non altro, giustificati dal "greed", dall'avidità: qualcuno guadagna sulla pelle di altri. Ma nel caso genovese, l'assurda storia si svolge solo e soltanto a causa della maledetta cocciutaggine burocratica. Una donna che aveva soccorso l'anziano, si era precipitata nel pronto soccorso per invocare l'intervento dei medici, sentendosi rispondere che avrebbe dovuto chiamare il 118. Detto fatto: peccato che le abbiano mandato un'ambulanza dal San Martino, dall'altra parte della città. Non sappiamo se Fasce sarebbe sopravvissuto in caso di soccorsi tempestivi. Sappiamo però che, grazie alla sanità pubblica, non c'è più.
domenica 14 dicembre 2008
Abolire le province. The Day After. Ora battete un colpo
(Ok, il titolo giusto sarebbe: The Day After Tomorrow, ma mi imbarazza un po' :-) )
L'incontro promosso dall'Istituto Bruno Leoni e dall'Associazione La Maona a Chiavari è stato un successo, come si dice, di pubblico e di critica. Ne hanno parlato, tra gli altri, Il Secolo XIX, L'Opinione, il Corriere Mercantile e diversi siti locali (qui, qui e qui, per esempio). Tutte le relazioni sono state interessanti e, in modo diverso, puntuali. La partecipazione dei presenti è stata viva, a tratti vivace (in qualche momento perfino troppo). Credo però che questo evento abbia dimostrato che, anche in una realtà come la nostra, è possibile affrontare argomenti di portata più ampia, offrendo un punto di vista liberista, senza che ci si trovi necessariamente al bar a prendere il caffé. Vorrei considerare questo piccolo convegno come un punto di partenza, da cui avviare un percorso più solido e meno occasionale.
Se ci siete - lettori, lo so che ci siete - battete un colpo e fatevi sentire.
L'incontro promosso dall'Istituto Bruno Leoni e dall'Associazione La Maona a Chiavari è stato un successo, come si dice, di pubblico e di critica. Ne hanno parlato, tra gli altri, Il Secolo XIX, L'Opinione, il Corriere Mercantile e diversi siti locali (qui, qui e qui, per esempio). Tutte le relazioni sono state interessanti e, in modo diverso, puntuali. La partecipazione dei presenti è stata viva, a tratti vivace (in qualche momento perfino troppo). Credo però che questo evento abbia dimostrato che, anche in una realtà come la nostra, è possibile affrontare argomenti di portata più ampia, offrendo un punto di vista liberista, senza che ci si trovi necessariamente al bar a prendere il caffé. Vorrei considerare questo piccolo convegno come un punto di partenza, da cui avviare un percorso più solido e meno occasionale.
Se ci siete - lettori, lo so che ci siete - battete un colpo e fatevi sentire.
venerdì 12 dicembre 2008
Abolire le Province. Oggi a Chiavari
Il Secolo XIX, 12 dicembre 2008
“Abolire le Province?”. È il titolo del libro (edito da Rubbettino/Leonardo Facco) di Silvio Boccalatte che affronta il tema delle riforme istituzionali e federali sostenendo la necessità di eliminare «enti dalle ridottissime competenze» che comportamo «spese assolutamente sproporzionate». Per Gianfranco Fabi, che cura la prefazione del volume (in vendita a 11 euro), «Il caso delle Province è drammaticamente emblematico di una filosofia di fondo di uno Stato che è ormai incapace di una significativa progettualità istituzionale». Il volume sarà presentato nel corso del convegno “Abolire le Province? Federalismo ed enti inutili” in programma oggi, alle 16.30, presso la Società Economica di Chiavari. L’incontro prevede la partecipazione dell’autore, dell’onorevole Renzo Lusetti (Pd), di FrancoMonteverde (centro internazionale “La Maona”) e dell’onorevoleMichele Scandroglio (Pdl).
D.BAD.
“Abolire le Province?”. È il titolo del libro (edito da Rubbettino/Leonardo Facco) di Silvio Boccalatte che affronta il tema delle riforme istituzionali e federali sostenendo la necessità di eliminare «enti dalle ridottissime competenze» che comportamo «spese assolutamente sproporzionate». Per Gianfranco Fabi, che cura la prefazione del volume (in vendita a 11 euro), «Il caso delle Province è drammaticamente emblematico di una filosofia di fondo di uno Stato che è ormai incapace di una significativa progettualità istituzionale». Il volume sarà presentato nel corso del convegno “Abolire le Province? Federalismo ed enti inutili” in programma oggi, alle 16.30, presso la Società Economica di Chiavari. L’incontro prevede la partecipazione dell’autore, dell’onorevole Renzo Lusetti (Pd), di FrancoMonteverde (centro internazionale “La Maona”) e dell’onorevoleMichele Scandroglio (Pdl).
D.BAD.
domenica 7 dicembre 2008
Casetta rossa la trionferà?
L'eterno ritorno dell'uguale. Per l'enne più unesima volta, il consiglio comunale di Sestri Levante si spacca sul "centro sociale" delle Casette rosse, con l'opposizione alla carica contro il progetto del sindaco, Andrea Lavarello, e della sua maggioranza. Tempo fa si era parlato di concedere l'uso dell'area a dei non meglio definiti "ragazzi" che ne avrebbero fatto un "centro di aggregazione politica". Poi l'ipotesi era tramontata, addirittura con strascichi polemici (il sindaco aveva fatto murare l'ingresso per impedirne l'occupazione). Ora la questione torna d'attualità, grossomodo con gli stessi toni di allora: un comunicato della minoranza accusa l'amministrazione di "realizzare un'opera che tutto ha di mira fuorché l'interesse generale della città". In realtà, mi si dice che il progetto sarebbe questa volta più articolato, e che prevederebbe la cessione di spazi - se non ho capito male - ai volontari del soccorso, a un gruppo di anziani, e al "forum dei giovani" (a meno che le due cose non coincidano, nel caso in cui nel forum ci siano sempre le stesse persone che erano giovani qualche anno fa). Il progetto costerebbe più di un milione e mezzo di euro (si parla di 843 mila, che come ogni preventivo che si rispetti sono destinati a raddoppiare qualunque cosa accada. Quindi, in burocratese, 843 mila euro significa "più di un milione e mezzo").
Non vivo più in zona e non ho seguito, se non marginalmente e orecchiando qua e là, la faccenda. Posso (e voglio) però dire che queste polemiche mi hanno stufato. L'amministrazione continua a lisciare il pelo a frange "giovanili" che non ha senso, politicamente, accattivarsi (almeno se il Partito democratico di Sestri è lo stesso Partito democratico che, a livello nazionale, dice quello che dice). L'opposizione sceglie la via facile della contestazione senza però, per quel che traspare dal comunicato offrire un'alternativa. Sono due i problemi. Primo: tutti i beneficiari dell'opera ne sono indegni oppure qualcuno va salvato? Non lo so: dico solo che, nella seconda ipotesi, bisogna dire come e quando e a che condizioni. Secondo: che fare, se non un "centro sociale" (qualunque cosa ciò voglia dire, e non l'ho mai capito), nelle Casette rosse? A questa domanda ho, a differenza della prima, una risposta precisa e convinta: venderle. Non ristrutturarle e poi venderle. Venderle, con gli attuali indici di edificabilità. La soluzione più ovvia e più giusta, chissà perché, nessuno la propone mai.
Non vivo più in zona e non ho seguito, se non marginalmente e orecchiando qua e là, la faccenda. Posso (e voglio) però dire che queste polemiche mi hanno stufato. L'amministrazione continua a lisciare il pelo a frange "giovanili" che non ha senso, politicamente, accattivarsi (almeno se il Partito democratico di Sestri è lo stesso Partito democratico che, a livello nazionale, dice quello che dice). L'opposizione sceglie la via facile della contestazione senza però, per quel che traspare dal comunicato offrire un'alternativa. Sono due i problemi. Primo: tutti i beneficiari dell'opera ne sono indegni oppure qualcuno va salvato? Non lo so: dico solo che, nella seconda ipotesi, bisogna dire come e quando e a che condizioni. Secondo: che fare, se non un "centro sociale" (qualunque cosa ciò voglia dire, e non l'ho mai capito), nelle Casette rosse? A questa domanda ho, a differenza della prima, una risposta precisa e convinta: venderle. Non ristrutturarle e poi venderle. Venderle, con gli attuali indici di edificabilità. La soluzione più ovvia e più giusta, chissà perché, nessuno la propone mai.
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Dalla crisi si esce con meno tasse
Il Secolo XIX, venerdì 5 dicembre 2008
Dalla finanza creativa al rigorismo contabile, il passo può essere breve. Così, almeno, è accaduto nel caso di Giulio Tremonti, l’uomo accusato dal centrosinistra vittorioso nel 2006 dello sfascio del bilancio pubblico, e che oggi si mette di traverso a tutte le iniziative di spesa.Opponendosi al ricorso disinvolto ai crediti d’imposta (che “non possono essere un bancomat”) e nella resistenza alle richieste di aiuti pubblici, il ministro dell’Economia interpreta un atteggiamento razionale di fronte alla doppia sfida posta dalla crisi economica mondiale e dagli specifici handicap italiani. Sono queste due condizioni a limitare la libertà di manovra del governo, a costringerlo a camminare su un sentiero stretto e impervio. È dunque un atto di responsabilità prenderne atto e rinunciare alla flessibilità annunciata dall’Unione europea riguardo ai parametri di Maastricht.
L’Italia è infatti il Paese col debito pubblico più alto: il 104,1 per cento del prodotto interno lordo nel 2008. Il secondo peggior Stato membro è la Grecia, col 93,4per cento, quello migliore è il Lussemburgo (14,1 per cento), la media dell’eurozona è del 66,6 per cento. È anzitutto questa realtà a scoraggiare il finanziamento della spesa pubblica in deficit. Come ha notato sul Sole 24 Ore di ieri Luca Beltrametti, l’esigenza di mantenere in ordine i conti pubblici non va letta soltanto in relazione agli obblighi comunitari, ma anche rispetto alla credibilità del sistema paese, e dunque alla sua capacità di attrarre investimenti.“I mercati giudicano le nostre politiche fiscali non solo sulla base del rispetto scolastico dei parametri di Maastricht – ha scritto il professore dell’Università di Genova – ma anche sulla base dei diversi fattori che determinano l’effettiva capacità del Paese di onorare il debito… L’Italia è quindi probabilmente il Paese europeo più interessato a che le deroghe del regime tradizionale di determinazione del rapporto debito/Pil avvengano in un quadro di massima trasparenza”.
Nella sostanza, la tesi di Beltrametti è che, poiché siamo lo Stato con la situazione contabile più critica, è nostro interesse, sia nel breve che nel lungo termine,non peggiorare le cose,perché ogni scivolamento ci si ritorcerebbe contro. Quando il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, ha evocato lo spettro dell’Argentina e ha scandito la possibilità di default, insomma, non ha fatto un’iperbole,ma ha indicato un rischio concreto, per quanto relativamente basso, con cui l’Italia deve oggi confrontarsi e che non può in ogni caso ignorare. Il monito di Sacconi, per quanto ingiustamente criticato, è insomma il necessario richiamo a non abbassare la guardia. Allo stesso modo, ha perfettamente ragione Tremonti a contrastare le sirene del keynesismo e a disertare gli appelli confindustriali. L’argomento del ministro è lineare: «Il nostro vincolo non è il patto, è il mercato finanziario», ha affermato mercoledì in audizione alla Camera. Ora, questo è un passaggio fondamentale, perché nasconde una verità spesso trascurata: l’Italia sta patendo la crisi finanziaria come tutti gli altri, ed è dunque chiamata a mettere in campo strumenti eccezionali per reagirvi (a partire dal moderato intervento a sostegno della capitalizzazione del sistema bancario). Ma la sua patologia è più profonda, e deriva da ruggini e svantaggi competitivi strutturali, che esistevano prima dell’entrata in recessione ed esisteranno dopo, se non verranno prese adeguate contromisure. Oggi subiamo come gli altri, ma ieri abbiamo creato meno ricchezza e siamo cresciuti meno.
Tre indicatori possono aiutare a comprenderne le ragioni. Secondo la classifica “Doing Business” della Banca Mondiale, che misura la facilità nello svolgere attività imprenditoriali, l’Italia è al sessantacinquesimo posto (con punte straordinariamente negative: siamo centoventottesimi per la complessità delle norme tributarie e centocinquantaseiesimi per il rispetto dei contratti). Per quanto attiene alla libertà economica, l’Italia è sessantaquattresima, tra il Madagascar e gli Emirati Arabi Uniti. Infine, l’indice della competitività ci consegna un non entusiasmante quarantanovesimo posto. In tutti e tre questi indicatori, poi, di anno in anno il nostro Paese segue un lento calo, frutto più che altro dell’altrui miglioramento.
Paradossalmente, questo crea una grande opportunità per l’Italia: con le stesse riforme, essa può accelerare l’uscita dalla crisi e porre le basi per un rilancio. Essenzialmente, si tratta di ridurre il peso dello Stato – a partire dal carico fiscale – e sciogliere i lacci che trattengono l’economia, oltre che cancellare le varie rendite di posizione create da un contesto regolatorio soffocante. Occorre creare vera competizione dove non c’è, cioè proseguire il cammino liberalizzatore iniziato a fine anni Novanta – tra l’altro, ciò renderebbe possibile una riduzione dei prezzi, per esempio, dei servizi pubblici locali. Ma bisogna anche aggredire con forza la questione fiscale: sul Foglio di ieri, Ernesto Felli ha sottolineato che “la politica dovrebbe avere come obiettivo la rimozione o l’attenuazione” delle distorsioni create da una fiscalità rapace e confusa, e cioè “limare le aliquote”. Durante il biennio del centrosinistra e poi in campagna elettorale, Tremonti ha spesso accusato la coalizione guidata da Romano Prodi di praticare la “filosofia del tassa e spendi”. L’impegno rigorista del ministro dell’Economia dimostra la sua buonafede sul lato della spesa. Per quel che riguarda invece le tasse, dalla Robin Tax al raddoppio dell’Iva su Sky, ha dato un’altra sensazione: questa sarà la legislatura di “Giulio Padoa Schioppa”?
Dalla finanza creativa al rigorismo contabile, il passo può essere breve. Così, almeno, è accaduto nel caso di Giulio Tremonti, l’uomo accusato dal centrosinistra vittorioso nel 2006 dello sfascio del bilancio pubblico, e che oggi si mette di traverso a tutte le iniziative di spesa.Opponendosi al ricorso disinvolto ai crediti d’imposta (che “non possono essere un bancomat”) e nella resistenza alle richieste di aiuti pubblici, il ministro dell’Economia interpreta un atteggiamento razionale di fronte alla doppia sfida posta dalla crisi economica mondiale e dagli specifici handicap italiani. Sono queste due condizioni a limitare la libertà di manovra del governo, a costringerlo a camminare su un sentiero stretto e impervio. È dunque un atto di responsabilità prenderne atto e rinunciare alla flessibilità annunciata dall’Unione europea riguardo ai parametri di Maastricht.
L’Italia è infatti il Paese col debito pubblico più alto: il 104,1 per cento del prodotto interno lordo nel 2008. Il secondo peggior Stato membro è la Grecia, col 93,4per cento, quello migliore è il Lussemburgo (14,1 per cento), la media dell’eurozona è del 66,6 per cento. È anzitutto questa realtà a scoraggiare il finanziamento della spesa pubblica in deficit. Come ha notato sul Sole 24 Ore di ieri Luca Beltrametti, l’esigenza di mantenere in ordine i conti pubblici non va letta soltanto in relazione agli obblighi comunitari, ma anche rispetto alla credibilità del sistema paese, e dunque alla sua capacità di attrarre investimenti.“I mercati giudicano le nostre politiche fiscali non solo sulla base del rispetto scolastico dei parametri di Maastricht – ha scritto il professore dell’Università di Genova – ma anche sulla base dei diversi fattori che determinano l’effettiva capacità del Paese di onorare il debito… L’Italia è quindi probabilmente il Paese europeo più interessato a che le deroghe del regime tradizionale di determinazione del rapporto debito/Pil avvengano in un quadro di massima trasparenza”.
Nella sostanza, la tesi di Beltrametti è che, poiché siamo lo Stato con la situazione contabile più critica, è nostro interesse, sia nel breve che nel lungo termine,non peggiorare le cose,perché ogni scivolamento ci si ritorcerebbe contro. Quando il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, ha evocato lo spettro dell’Argentina e ha scandito la possibilità di default, insomma, non ha fatto un’iperbole,ma ha indicato un rischio concreto, per quanto relativamente basso, con cui l’Italia deve oggi confrontarsi e che non può in ogni caso ignorare. Il monito di Sacconi, per quanto ingiustamente criticato, è insomma il necessario richiamo a non abbassare la guardia. Allo stesso modo, ha perfettamente ragione Tremonti a contrastare le sirene del keynesismo e a disertare gli appelli confindustriali. L’argomento del ministro è lineare: «Il nostro vincolo non è il patto, è il mercato finanziario», ha affermato mercoledì in audizione alla Camera. Ora, questo è un passaggio fondamentale, perché nasconde una verità spesso trascurata: l’Italia sta patendo la crisi finanziaria come tutti gli altri, ed è dunque chiamata a mettere in campo strumenti eccezionali per reagirvi (a partire dal moderato intervento a sostegno della capitalizzazione del sistema bancario). Ma la sua patologia è più profonda, e deriva da ruggini e svantaggi competitivi strutturali, che esistevano prima dell’entrata in recessione ed esisteranno dopo, se non verranno prese adeguate contromisure. Oggi subiamo come gli altri, ma ieri abbiamo creato meno ricchezza e siamo cresciuti meno.
Tre indicatori possono aiutare a comprenderne le ragioni. Secondo la classifica “Doing Business” della Banca Mondiale, che misura la facilità nello svolgere attività imprenditoriali, l’Italia è al sessantacinquesimo posto (con punte straordinariamente negative: siamo centoventottesimi per la complessità delle norme tributarie e centocinquantaseiesimi per il rispetto dei contratti). Per quanto attiene alla libertà economica, l’Italia è sessantaquattresima, tra il Madagascar e gli Emirati Arabi Uniti. Infine, l’indice della competitività ci consegna un non entusiasmante quarantanovesimo posto. In tutti e tre questi indicatori, poi, di anno in anno il nostro Paese segue un lento calo, frutto più che altro dell’altrui miglioramento.
Paradossalmente, questo crea una grande opportunità per l’Italia: con le stesse riforme, essa può accelerare l’uscita dalla crisi e porre le basi per un rilancio. Essenzialmente, si tratta di ridurre il peso dello Stato – a partire dal carico fiscale – e sciogliere i lacci che trattengono l’economia, oltre che cancellare le varie rendite di posizione create da un contesto regolatorio soffocante. Occorre creare vera competizione dove non c’è, cioè proseguire il cammino liberalizzatore iniziato a fine anni Novanta – tra l’altro, ciò renderebbe possibile una riduzione dei prezzi, per esempio, dei servizi pubblici locali. Ma bisogna anche aggredire con forza la questione fiscale: sul Foglio di ieri, Ernesto Felli ha sottolineato che “la politica dovrebbe avere come obiettivo la rimozione o l’attenuazione” delle distorsioni create da una fiscalità rapace e confusa, e cioè “limare le aliquote”. Durante il biennio del centrosinistra e poi in campagna elettorale, Tremonti ha spesso accusato la coalizione guidata da Romano Prodi di praticare la “filosofia del tassa e spendi”. L’impegno rigorista del ministro dell’Economia dimostra la sua buonafede sul lato della spesa. Per quel che riguarda invece le tasse, dalla Robin Tax al raddoppio dell’Iva su Sky, ha dato un’altra sensazione: questa sarà la legislatura di “Giulio Padoa Schioppa”?
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giovedì 4 dicembre 2008
Abolire le province? Un dibattito a Chiavari
Venerdì 12 dicembre, alle 16,30, presso la Società economica, IBL e La Maona organizzano un dibattito sull'abolizione delle province. Interverranno Scandroglio (PDL), Lusetti (PD), Monteverde (La Maona) e Boccalatte (IBL). Da non perdere.
mercoledì 3 dicembre 2008
martedì 2 dicembre 2008
- authority + concorrenza
L’inchieste sul porto di Genova vanno avanti. A breve saranno chiuse le indagini preliminari e si avranno le richieste di archiviazione o i rinvii a giudizio. Comunque vada a finire la vicenda processuale l’esigenza di una riforma dell’ordinamento portuale sarà confermata. Sia che gli indagati risultino colpevoli sia che (come speriamo) siano riconosciuti innocenti, le regole che disciplinano la gestione delle banchine e dei servizi portuali si saranno dimostrate inadeguate, in particolar modo per quanto riguarda le procedure di affidamento delle zone demaniali. I ripetuti contatti confidenziali fra banditore e concorrenti al bando, anche se giudicati penalmente irrilevanti, avranno evidenziato la vischiosità degli attuali criteri di affidamento e, quindi, il bisogno di una loro modifica.
Anche per questo in parlamento sono in discussione più progetti di riforma della legge n. 84/1994 e, sempre al riguardo, è allo studio anche un organico disegno di legge del governo cui il ministro dei trasporti Matteoli pare tenere particolarmente. In attesa di avere a disposizione la versione definitiva del testo, l’auspicio è di vedere portato avanti il processo di liberalizzazione del comparto iniziato quattordici anni fa con scarsi risultati soprattutto a causa dello strapotere attribuito all’autorità portuale.
Meno authority e più concorrenza farebbero bene al porto (che attrarrebbe più vettori e più investitori), e anche ai tribunali (che si potrebbero finalmente occupare di altro).
Anche per questo in parlamento sono in discussione più progetti di riforma della legge n. 84/1994 e, sempre al riguardo, è allo studio anche un organico disegno di legge del governo cui il ministro dei trasporti Matteoli pare tenere particolarmente. In attesa di avere a disposizione la versione definitiva del testo, l’auspicio è di vedere portato avanti il processo di liberalizzazione del comparto iniziato quattordici anni fa con scarsi risultati soprattutto a causa dello strapotere attribuito all’autorità portuale.
Meno authority e più concorrenza farebbero bene al porto (che attrarrebbe più vettori e più investitori), e anche ai tribunali (che si potrebbero finalmente occupare di altro).
Forza Musso. Ecco perché il Pdl deve fare le primarie
Il Secolo XIX, 2 dicembre 2008
Le buone idee generano scompiglio. Il volume delle repliche alla proposta di Enrico Musso, di tenere le primarie nel centrodestra per le prossime elezioni regionali, è una sonora dimostrazione che il senatore del Pdl ha toccato un nervo scoperto. L’apertura di Sandro Biasotti, che si è così smarcato dal suo partito, lascia a sua volta intravvedere scenari interessanti. La ricerca di legittimazione popolare per le candidature, del resto, è anche un modo di lanciare un messaggio: in fondo, se si teme il giudizio della propria base, con che credibilità ci si può presentare di fronte agli elettori? Ma la questione delle primarie nasconde anche un tema più generale e profondo, come ha rilevato lo stesso Biasotti: sedici anni e dodici governi dopo le elezioni del 23 aprile 1992, il sistema politico italiano non è ancora riuscito a trovare un equilibrio. Sono cambiate le leggi elettorali, i partiti hanno mutato nome, hanno attraversato scissioni, si sono aggregati, ma ancora restano aperti i nodi della selezione della classe dirigente e del rapporto tra gli schieramenti.
Le primarie possono aiutare nella ricerca del giusto grado di compenetrazione tra apparati politici e società civile. Perfino quando i risultati sono scontati – come con Romano Prodi nel 2006 e Walter Veltroni nel 2008 – esse servono a sostanziare una leadership che abbia l’ambizione di proiettarsi al di là dei confini del proprio schieramento. E’, questa, una condizione essenziale a gettare le basi per un’attività di governo a 360 gradi, ma anche per segnare l’indipendenza rispetto alle burocrazie partitiche. Non è un caso se le primarie sono un tassello centrale del progetto di riforma di Giovanni Guzzetta, il costituzionalista che ha promosso lo sfortunato referendum contro il “porcellum”: le primarie, oltre tutto, rendono i candidati “accountable”, responsabili personalmente delle loro promesse e della loro performance; riducono il peso delle negoziazioni condotte nelle stanze fumose e complicano la vita ai golpisti da congresso.
La questione è delicata perché si colloca all’incrocio tra l’interesse pubblico e il diritto di qualunque associazione, compresi i partiti politici, di organizzarsi come vuole. In fin dei conti, tutto si riduce al tentativo di escogitare strumenti per arginare le due derive a cui la democrazia è soggetta. La prima deriva è quella partitocratica: l’incomunicabilità tra il paese reale e i partiti, lo strapotere delle correnti e per loro mezzo dei gruppi di pressione. A effettuare tutte le scelte rilevanti sono i signori delle tessere, il parlamento non è eletto ma si elegge da sé. Le votazioni si riducono alla scelta del premier (in un sistema che non è formalmente presidenzialista): peggio ancora, dal 1994 sono state quasi esclusivamente un referendum pro o contro Silvio Berlusconi, ed è significativo che sistematicamente i cittadini abbiano votato contro la maggioranza uscente, qualunque essa fosse. Il rischio opposto è quello del populismo: procedure di nomina verticistiche e deresponsabilizzanti acuiscono l’istinto a solleticare la pancia del paese, a prescindere dall’effettiva realizzabilità delle promesse fatte. Nell’Italia del 2008, paradossalmente, entrambi i rischi convivono, con un’aggravante: il venir meno del ruolo dei partiti come agenzie del consenso, capaci di formare la loro classe dirigente, ha durante una prima fase aperto le porte a tutti indistintamente, e poi, come per reazione, ha portato a una chiusura quasi ermetica, per cui chi c’è c’è, chi non c’è resta fuori. Si è dunque passati dall’osmosi acritica con la società civile, al suo rigetto.
In un tale contesto, le primarie possono contribuire, se non a risolvere i problemi, almeno a darvi una risposta. La scelta dei candidati attraverso elezioni aperte a tutti, iscritti e no, è un processo aperto, meno pilotabile. I signori delle tessere continueranno a contare, naturalmente, e questo è inevitabile; ma la partecipazione popolare ne diluirà l’influenza e ne farà crescere il pudore. Al tempo stesso, la tentazione populistica sarà temperata dal realismo tipico di chi ha consuetudine con la politica, e i suoi vizi. Le primarie non sono un meccanismo perfetto, perché soffrono di tutti i limiti della democrazia, compresa la tensione tra populismo e cedimento agli interessi particolari, che si replica pure a questo livello; ma, quanto meno, aiutano a rendere più trasparente e forse più efficace la selezione interna, soprattutto in presenza di un dibattito schizofrenico e di una legge elettorale fatta apposta per offuscare il singolo candidato, che è sempre di più l’anonimo membro di una lista compilata da altri.
Ha quindi ragione, Musso, quando afferma che “le primarie, all’interno del Popolo della libertà, sono una scelta ormai irrimandabile per stabilire chi portare davanti ai cittadini”, sottintendendo un deficit di dialettica interna e di elaborazione culturale, peraltro visibile ai più. E lo stesso vale per il Partito democratico, che pochi giorni fa ha messo sotto gli occhi dei media lo spettacolo sconsolante dell’elezione del coordinatore regionale del Lazio. Anche in quel caso non c’erano primarie, e il congresso si è risolto in uno scontro in campo aperto tra veltroniani, dalemiani, e altre razze minoritarie. Entrambi i partiti avrebbero tutto da guadagnare da procedure più limpide e responsabilizzanti, e quindi sarebbe una splendida notizia se il centrodestra ligure ascoltasse Musso. Purtroppo è difficile che, senza pressioni esterne, un organismo corregga spontaneamente i suoi errori. Il malessere della società italiana è tangibile, ma se non trova traduzione politica rischia di degenerare in paralisi civile. Un paese che ha un dannato bisogno di riforme, semplicemente, non può permetterselo.
Le buone idee generano scompiglio. Il volume delle repliche alla proposta di Enrico Musso, di tenere le primarie nel centrodestra per le prossime elezioni regionali, è una sonora dimostrazione che il senatore del Pdl ha toccato un nervo scoperto. L’apertura di Sandro Biasotti, che si è così smarcato dal suo partito, lascia a sua volta intravvedere scenari interessanti. La ricerca di legittimazione popolare per le candidature, del resto, è anche un modo di lanciare un messaggio: in fondo, se si teme il giudizio della propria base, con che credibilità ci si può presentare di fronte agli elettori? Ma la questione delle primarie nasconde anche un tema più generale e profondo, come ha rilevato lo stesso Biasotti: sedici anni e dodici governi dopo le elezioni del 23 aprile 1992, il sistema politico italiano non è ancora riuscito a trovare un equilibrio. Sono cambiate le leggi elettorali, i partiti hanno mutato nome, hanno attraversato scissioni, si sono aggregati, ma ancora restano aperti i nodi della selezione della classe dirigente e del rapporto tra gli schieramenti.
Le primarie possono aiutare nella ricerca del giusto grado di compenetrazione tra apparati politici e società civile. Perfino quando i risultati sono scontati – come con Romano Prodi nel 2006 e Walter Veltroni nel 2008 – esse servono a sostanziare una leadership che abbia l’ambizione di proiettarsi al di là dei confini del proprio schieramento. E’, questa, una condizione essenziale a gettare le basi per un’attività di governo a 360 gradi, ma anche per segnare l’indipendenza rispetto alle burocrazie partitiche. Non è un caso se le primarie sono un tassello centrale del progetto di riforma di Giovanni Guzzetta, il costituzionalista che ha promosso lo sfortunato referendum contro il “porcellum”: le primarie, oltre tutto, rendono i candidati “accountable”, responsabili personalmente delle loro promesse e della loro performance; riducono il peso delle negoziazioni condotte nelle stanze fumose e complicano la vita ai golpisti da congresso.
La questione è delicata perché si colloca all’incrocio tra l’interesse pubblico e il diritto di qualunque associazione, compresi i partiti politici, di organizzarsi come vuole. In fin dei conti, tutto si riduce al tentativo di escogitare strumenti per arginare le due derive a cui la democrazia è soggetta. La prima deriva è quella partitocratica: l’incomunicabilità tra il paese reale e i partiti, lo strapotere delle correnti e per loro mezzo dei gruppi di pressione. A effettuare tutte le scelte rilevanti sono i signori delle tessere, il parlamento non è eletto ma si elegge da sé. Le votazioni si riducono alla scelta del premier (in un sistema che non è formalmente presidenzialista): peggio ancora, dal 1994 sono state quasi esclusivamente un referendum pro o contro Silvio Berlusconi, ed è significativo che sistematicamente i cittadini abbiano votato contro la maggioranza uscente, qualunque essa fosse. Il rischio opposto è quello del populismo: procedure di nomina verticistiche e deresponsabilizzanti acuiscono l’istinto a solleticare la pancia del paese, a prescindere dall’effettiva realizzabilità delle promesse fatte. Nell’Italia del 2008, paradossalmente, entrambi i rischi convivono, con un’aggravante: il venir meno del ruolo dei partiti come agenzie del consenso, capaci di formare la loro classe dirigente, ha durante una prima fase aperto le porte a tutti indistintamente, e poi, come per reazione, ha portato a una chiusura quasi ermetica, per cui chi c’è c’è, chi non c’è resta fuori. Si è dunque passati dall’osmosi acritica con la società civile, al suo rigetto.
In un tale contesto, le primarie possono contribuire, se non a risolvere i problemi, almeno a darvi una risposta. La scelta dei candidati attraverso elezioni aperte a tutti, iscritti e no, è un processo aperto, meno pilotabile. I signori delle tessere continueranno a contare, naturalmente, e questo è inevitabile; ma la partecipazione popolare ne diluirà l’influenza e ne farà crescere il pudore. Al tempo stesso, la tentazione populistica sarà temperata dal realismo tipico di chi ha consuetudine con la politica, e i suoi vizi. Le primarie non sono un meccanismo perfetto, perché soffrono di tutti i limiti della democrazia, compresa la tensione tra populismo e cedimento agli interessi particolari, che si replica pure a questo livello; ma, quanto meno, aiutano a rendere più trasparente e forse più efficace la selezione interna, soprattutto in presenza di un dibattito schizofrenico e di una legge elettorale fatta apposta per offuscare il singolo candidato, che è sempre di più l’anonimo membro di una lista compilata da altri.
Ha quindi ragione, Musso, quando afferma che “le primarie, all’interno del Popolo della libertà, sono una scelta ormai irrimandabile per stabilire chi portare davanti ai cittadini”, sottintendendo un deficit di dialettica interna e di elaborazione culturale, peraltro visibile ai più. E lo stesso vale per il Partito democratico, che pochi giorni fa ha messo sotto gli occhi dei media lo spettacolo sconsolante dell’elezione del coordinatore regionale del Lazio. Anche in quel caso non c’erano primarie, e il congresso si è risolto in uno scontro in campo aperto tra veltroniani, dalemiani, e altre razze minoritarie. Entrambi i partiti avrebbero tutto da guadagnare da procedure più limpide e responsabilizzanti, e quindi sarebbe una splendida notizia se il centrodestra ligure ascoltasse Musso. Purtroppo è difficile che, senza pressioni esterne, un organismo corregga spontaneamente i suoi errori. Il malessere della società italiana è tangibile, ma se non trova traduzione politica rischia di degenerare in paralisi civile. Un paese che ha un dannato bisogno di riforme, semplicemente, non può permetterselo.
lunedì 1 dicembre 2008
Su luce e gas il governo fa invasione di campo
Segnalo un mio editoriale sul Secolo XIX a proposito della surreale diatriba sulle "tariffe" di luce e gas.
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