Il Secolo XIX, 2 dicembre 2008
Le buone idee generano scompiglio. Il volume delle repliche alla proposta di Enrico Musso, di tenere le primarie nel centrodestra per le prossime elezioni regionali, è una sonora dimostrazione che il senatore del Pdl ha toccato un nervo scoperto. L’apertura di Sandro Biasotti, che si è così smarcato dal suo partito, lascia a sua volta intravvedere scenari interessanti. La ricerca di legittimazione popolare per le candidature, del resto, è anche un modo di lanciare un messaggio: in fondo, se si teme il giudizio della propria base, con che credibilità ci si può presentare di fronte agli elettori? Ma la questione delle primarie nasconde anche un tema più generale e profondo, come ha rilevato lo stesso Biasotti: sedici anni e dodici governi dopo le elezioni del 23 aprile 1992, il sistema politico italiano non è ancora riuscito a trovare un equilibrio. Sono cambiate le leggi elettorali, i partiti hanno mutato nome, hanno attraversato scissioni, si sono aggregati, ma ancora restano aperti i nodi della selezione della classe dirigente e del rapporto tra gli schieramenti.
Le primarie possono aiutare nella ricerca del giusto grado di compenetrazione tra apparati politici e società civile. Perfino quando i risultati sono scontati – come con Romano Prodi nel 2006 e Walter Veltroni nel 2008 – esse servono a sostanziare una leadership che abbia l’ambizione di proiettarsi al di là dei confini del proprio schieramento. E’, questa, una condizione essenziale a gettare le basi per un’attività di governo a 360 gradi, ma anche per segnare l’indipendenza rispetto alle burocrazie partitiche. Non è un caso se le primarie sono un tassello centrale del progetto di riforma di Giovanni Guzzetta, il costituzionalista che ha promosso lo sfortunato referendum contro il “porcellum”: le primarie, oltre tutto, rendono i candidati “accountable”, responsabili personalmente delle loro promesse e della loro performance; riducono il peso delle negoziazioni condotte nelle stanze fumose e complicano la vita ai golpisti da congresso.
La questione è delicata perché si colloca all’incrocio tra l’interesse pubblico e il diritto di qualunque associazione, compresi i partiti politici, di organizzarsi come vuole. In fin dei conti, tutto si riduce al tentativo di escogitare strumenti per arginare le due derive a cui la democrazia è soggetta. La prima deriva è quella partitocratica: l’incomunicabilità tra il paese reale e i partiti, lo strapotere delle correnti e per loro mezzo dei gruppi di pressione. A effettuare tutte le scelte rilevanti sono i signori delle tessere, il parlamento non è eletto ma si elegge da sé. Le votazioni si riducono alla scelta del premier (in un sistema che non è formalmente presidenzialista): peggio ancora, dal 1994 sono state quasi esclusivamente un referendum pro o contro Silvio Berlusconi, ed è significativo che sistematicamente i cittadini abbiano votato contro la maggioranza uscente, qualunque essa fosse. Il rischio opposto è quello del populismo: procedure di nomina verticistiche e deresponsabilizzanti acuiscono l’istinto a solleticare la pancia del paese, a prescindere dall’effettiva realizzabilità delle promesse fatte. Nell’Italia del 2008, paradossalmente, entrambi i rischi convivono, con un’aggravante: il venir meno del ruolo dei partiti come agenzie del consenso, capaci di formare la loro classe dirigente, ha durante una prima fase aperto le porte a tutti indistintamente, e poi, come per reazione, ha portato a una chiusura quasi ermetica, per cui chi c’è c’è, chi non c’è resta fuori. Si è dunque passati dall’osmosi acritica con la società civile, al suo rigetto.
In un tale contesto, le primarie possono contribuire, se non a risolvere i problemi, almeno a darvi una risposta. La scelta dei candidati attraverso elezioni aperte a tutti, iscritti e no, è un processo aperto, meno pilotabile. I signori delle tessere continueranno a contare, naturalmente, e questo è inevitabile; ma la partecipazione popolare ne diluirà l’influenza e ne farà crescere il pudore. Al tempo stesso, la tentazione populistica sarà temperata dal realismo tipico di chi ha consuetudine con la politica, e i suoi vizi. Le primarie non sono un meccanismo perfetto, perché soffrono di tutti i limiti della democrazia, compresa la tensione tra populismo e cedimento agli interessi particolari, che si replica pure a questo livello; ma, quanto meno, aiutano a rendere più trasparente e forse più efficace la selezione interna, soprattutto in presenza di un dibattito schizofrenico e di una legge elettorale fatta apposta per offuscare il singolo candidato, che è sempre di più l’anonimo membro di una lista compilata da altri.
Ha quindi ragione, Musso, quando afferma che “le primarie, all’interno del Popolo della libertà, sono una scelta ormai irrimandabile per stabilire chi portare davanti ai cittadini”, sottintendendo un deficit di dialettica interna e di elaborazione culturale, peraltro visibile ai più. E lo stesso vale per il Partito democratico, che pochi giorni fa ha messo sotto gli occhi dei media lo spettacolo sconsolante dell’elezione del coordinatore regionale del Lazio. Anche in quel caso non c’erano primarie, e il congresso si è risolto in uno scontro in campo aperto tra veltroniani, dalemiani, e altre razze minoritarie. Entrambi i partiti avrebbero tutto da guadagnare da procedure più limpide e responsabilizzanti, e quindi sarebbe una splendida notizia se il centrodestra ligure ascoltasse Musso. Purtroppo è difficile che, senza pressioni esterne, un organismo corregga spontaneamente i suoi errori. Il malessere della società italiana è tangibile, ma se non trova traduzione politica rischia di degenerare in paralisi civile. Un paese che ha un dannato bisogno di riforme, semplicemente, non può permetterselo.
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