Il Secolo XIX, venerdì 5 dicembre 2008
Dalla finanza creativa al rigorismo contabile, il passo può essere breve. Così, almeno, è accaduto nel caso di Giulio Tremonti, l’uomo accusato dal centrosinistra vittorioso nel 2006 dello sfascio del bilancio pubblico, e che oggi si mette di traverso a tutte le iniziative di spesa.Opponendosi al ricorso disinvolto ai crediti d’imposta (che “non possono essere un bancomat”) e nella resistenza alle richieste di aiuti pubblici, il ministro dell’Economia interpreta un atteggiamento razionale di fronte alla doppia sfida posta dalla crisi economica mondiale e dagli specifici handicap italiani. Sono queste due condizioni a limitare la libertà di manovra del governo, a costringerlo a camminare su un sentiero stretto e impervio. È dunque un atto di responsabilità prenderne atto e rinunciare alla flessibilità annunciata dall’Unione europea riguardo ai parametri di Maastricht.
L’Italia è infatti il Paese col debito pubblico più alto: il 104,1 per cento del prodotto interno lordo nel 2008. Il secondo peggior Stato membro è la Grecia, col 93,4per cento, quello migliore è il Lussemburgo (14,1 per cento), la media dell’eurozona è del 66,6 per cento. È anzitutto questa realtà a scoraggiare il finanziamento della spesa pubblica in deficit. Come ha notato sul Sole 24 Ore di ieri Luca Beltrametti, l’esigenza di mantenere in ordine i conti pubblici non va letta soltanto in relazione agli obblighi comunitari, ma anche rispetto alla credibilità del sistema paese, e dunque alla sua capacità di attrarre investimenti.“I mercati giudicano le nostre politiche fiscali non solo sulla base del rispetto scolastico dei parametri di Maastricht – ha scritto il professore dell’Università di Genova – ma anche sulla base dei diversi fattori che determinano l’effettiva capacità del Paese di onorare il debito… L’Italia è quindi probabilmente il Paese europeo più interessato a che le deroghe del regime tradizionale di determinazione del rapporto debito/Pil avvengano in un quadro di massima trasparenza”.
Nella sostanza, la tesi di Beltrametti è che, poiché siamo lo Stato con la situazione contabile più critica, è nostro interesse, sia nel breve che nel lungo termine,non peggiorare le cose,perché ogni scivolamento ci si ritorcerebbe contro. Quando il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, ha evocato lo spettro dell’Argentina e ha scandito la possibilità di default, insomma, non ha fatto un’iperbole,ma ha indicato un rischio concreto, per quanto relativamente basso, con cui l’Italia deve oggi confrontarsi e che non può in ogni caso ignorare. Il monito di Sacconi, per quanto ingiustamente criticato, è insomma il necessario richiamo a non abbassare la guardia. Allo stesso modo, ha perfettamente ragione Tremonti a contrastare le sirene del keynesismo e a disertare gli appelli confindustriali. L’argomento del ministro è lineare: «Il nostro vincolo non è il patto, è il mercato finanziario», ha affermato mercoledì in audizione alla Camera. Ora, questo è un passaggio fondamentale, perché nasconde una verità spesso trascurata: l’Italia sta patendo la crisi finanziaria come tutti gli altri, ed è dunque chiamata a mettere in campo strumenti eccezionali per reagirvi (a partire dal moderato intervento a sostegno della capitalizzazione del sistema bancario). Ma la sua patologia è più profonda, e deriva da ruggini e svantaggi competitivi strutturali, che esistevano prima dell’entrata in recessione ed esisteranno dopo, se non verranno prese adeguate contromisure. Oggi subiamo come gli altri, ma ieri abbiamo creato meno ricchezza e siamo cresciuti meno.
Tre indicatori possono aiutare a comprenderne le ragioni. Secondo la classifica “Doing Business” della Banca Mondiale, che misura la facilità nello svolgere attività imprenditoriali, l’Italia è al sessantacinquesimo posto (con punte straordinariamente negative: siamo centoventottesimi per la complessità delle norme tributarie e centocinquantaseiesimi per il rispetto dei contratti). Per quanto attiene alla libertà economica, l’Italia è sessantaquattresima, tra il Madagascar e gli Emirati Arabi Uniti. Infine, l’indice della competitività ci consegna un non entusiasmante quarantanovesimo posto. In tutti e tre questi indicatori, poi, di anno in anno il nostro Paese segue un lento calo, frutto più che altro dell’altrui miglioramento.
Paradossalmente, questo crea una grande opportunità per l’Italia: con le stesse riforme, essa può accelerare l’uscita dalla crisi e porre le basi per un rilancio. Essenzialmente, si tratta di ridurre il peso dello Stato – a partire dal carico fiscale – e sciogliere i lacci che trattengono l’economia, oltre che cancellare le varie rendite di posizione create da un contesto regolatorio soffocante. Occorre creare vera competizione dove non c’è, cioè proseguire il cammino liberalizzatore iniziato a fine anni Novanta – tra l’altro, ciò renderebbe possibile una riduzione dei prezzi, per esempio, dei servizi pubblici locali. Ma bisogna anche aggredire con forza la questione fiscale: sul Foglio di ieri, Ernesto Felli ha sottolineato che “la politica dovrebbe avere come obiettivo la rimozione o l’attenuazione” delle distorsioni create da una fiscalità rapace e confusa, e cioè “limare le aliquote”. Durante il biennio del centrosinistra e poi in campagna elettorale, Tremonti ha spesso accusato la coalizione guidata da Romano Prodi di praticare la “filosofia del tassa e spendi”. L’impegno rigorista del ministro dell’Economia dimostra la sua buonafede sul lato della spesa. Per quel che riguarda invece le tasse, dalla Robin Tax al raddoppio dell’Iva su Sky, ha dato un’altra sensazione: questa sarà la legislatura di “Giulio Padoa Schioppa”?
domenica 7 dicembre 2008
Dalla crisi si esce con meno tasse
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1 commento:
Perfettamente d'accordo. Gli economisti hanno più volte sottolineato un fatto che può sembrare contro-intuitivo:
la probabilità di iniziare un percorso di riforme strutturali è più alta in un periodo di crisi piuttosto che in un periodo di crescita economica. In soldoni, il peggioramento dello status quo rende sempre più costoso il procrastinare le riforme (e più vicina la data in cui il costo marginale di mantenere un istante di più lo status quo è uguale alla disutilità derivante dal sopportare il peso della riforma). Drazen-Grilli (1993), Alesina-Drazen(1991).
C'è del buono in questa crisi.
ps. è con la tesi sopra che alcuni spiegano il perchè l'optimal inflation rate non sia 0% ma bensì maggiore di 0. Un fatto che non mi ha mai convinto, ma che da poco inizia ad apparirmi ragionevole.
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