venerdì 14 novembre 2008

Atenei, contro i nepotismi trasparenza e meritocrazia

Il Secolo XIX, 14 novembre 2008

La mamma non se la sceglie nessuno, ma il figlio, almeno in università, capita piuttosto spesso. L’inchiesta del Secolo XIX sulle parentele nell’ateneo genovese documenta qualcosa che, se non altro per anedottica, tutti conoscono: il nepotismo accademico. E’ opportuno, naturalmente, non generalizzare: non tutti i casi nascondono trame sordide, e spesso persone appartenenti alla stessa famiglia sono davvero meritevoli e competenti. Inoltre, probabilmente le dimensioni del fenomeno sono meno gravi che in altri posti – come nella facoltà di Economia a Bari, dove quasi un quarto dei docenti hanno almeno un famigliare per collega. Tuttavia, l’aspetto giornalisticamente rilevante è che, di fronte all’osservazione di questo dato, è difficile rimanere insensibili, o accettarlo come una semplice realtà della vita. Tutti – chi per esperienza diretta, chi per sentito dire – percepiscono che i concorsi universitari non sono quel meccanismo di selezione a prova di bomba che, talvolta, viene dipinto.

Infatti, i concorsi sono una diligenza che sembra fatta apposta per essere rapinata. I modi e i tempi con cui vengono banditi possono essere facilmente asserviti a esigenze di clan, ed essi finiscono per essere l’alibi dietro cui si nascondono gli sforzi dei baroni di promuovere i loro accoliti. Non ci sarebbe nulla di sbagliato, in ciò, se il processo fosse sano. In fondo, in qualunque università del mondo i professori cercano di aiutare i loro allievi più meritevoli. Solo che, altrove, chi compie scelte opportunistiche – piazzare il cugino, l’amante o lo yesman – finisce per pagarne le conseguenze, in Italia no. La ragione, come spiega l’economista bocconiano Roberto Perotti nel suo libro “L’università truccata”, sta nella “mancanza di incentivi e disincentivi appropriati. Nell’università italiana nessuno viene premiato se ha successo nella ricerca e nell’insegnamento, e nessuno paga se opera male”. L’università ha dei costi di ingresso molto alti, perché la porta è stretta e tutto viene filtrato attraverso concorsi che, nella maggioranza dei casi, sono pilotati. Ciò non significa che si compiano, generalmente, atti illeciti: per quanto impersonale e astratto, in un concorso c’è sempre una componente umana che è inevitabile e non è neppure desiderabile abolire. Quindi, il candidato somaro ma ben ammanigliato non deve far altro che aspettare che il babbo o la zia riescano a farlo giudicare da una commissione compiacente – magari dietro la promessa di restituire il favore ai commissari non appena necessario, oppure perché stanno già passando all’incasso. Dopo di che, la strada è in discesa: nessuno può tagliare l’insegnante incapace o lo studioso dormiglione, e nessuno può chiamare a risponderne chi gli ha dato un posto. La carriera non procede per merito, ma per anzianità. Il numero di pubblicazioni, la capacità affabulatoria, la profondità della riflessione scientifica sono marginali. Per giunta, è anomala l’evoluzione di redditi e carriere: il giovane, per quanto entusiasta e competente, prende quattro spicci, il vecchio incartapecorito che non legge da vent’anni e non scrive da trenta gode di un trattamento privilegiato.

Essere giovani non è un merito ed essere vecchi non è una colpa; avere un genitore o un parente nella stessa università non dovrebbero essere un handicap più di quanto dovrebbero far saltare gli ostacoli. Però, se si osserva che le famiglie accademiche superano una dimensione critica, se si nota che i loro membri non brillano per abilità, allora bisogna porsi delle domande. La prima riguarda i concorsi: davvero essi sono lo strumento migliore? Probabilmente, no. Poiché ogni concorso nasconde un processo di cooptazione, tanto varrebbe rendere questo meccanismo trasparente – e creare le condizioni per cui i baroni si assumono la responsabilità delle persone di cui si circondano. Tra l’altro, l’esistenza di dinamiche corrotte tende a propagarsi anche agli onesti: se io so che il personale viene selezionato secondo legami personali, cercherò di promuovere i candidati validi utilizzando gli stessi mezzi, pur non condividendoli in teoria. Seconda questione: la struttura delle retribuzioni è efficiente? Anche in questo caso, la risposta è negativa: non c’è ragione al mondo per cui un giovane di valore debba essere pagato meno di un anziano sciatto (così come sarebbe insensato il contrario). La conseguenza è una selezione al contrario: “sono esattamente coloro che pensano di non potercela fare con le proprie risorse intellettuali – ragiona Perotti – che avranno più incentivo a scegliere una carriera che remunera esclusivamente l’anzianità, una variabile in cui tutti sono ugualmente bravi senza nessuno sforzo”. Non stupisce che, nelle classifiche internazionali, gli atenei italiani non figurino quasi mai in posizioni di eccellenza, pur senza soffrire – e questo è un altro mito da sventare – di condizioni particolarmente ostiche dal punto di vista del finanziamento. Sempre per citare Perotti, “non è l’ammontare totale per studente, o la remunerazione media dei docenti, che è insufficiente; è la sua distribuzione e la sua progressione che sono perverse”.

Questi nodi non possono essere sciolti senza incidere profondamente sull’organizzazione dell’università – prima ancora che sulla didattica – e cioè senza dotare di reale autonomia gli atenei e senza metterli in vera competizione l’uno con l’altro (facendo lo stesso coi professori). Le istituzioni migliori devono avere più soldi, e i docenti migliori devono essere meglio pagati, perché questo è l’unico modo di riflettere il loro valore sociale e l’interesse di tutti a una formazione universitaria e una ricerca di qualità. Ricostruire la credibilità degli studiosi e del loro lavoro è l’unico modo per far piazza pulita dei retropensieri. Altrimenti, continuerà ad aleggiare il sospetto che il tale non sia in cattedra perché bravo, ma perché amico di amici.

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