Lo scandalo degli asili genovesi, che hanno costi superiori di tre volte alla media italiana, è indicativo di una serie di difetti del settore pubblico. Difetti che non sono conseguenza di qualche scelta sbagliata o di cattive nomine, ma sono intrinseci e strutturali.
Il primo difetto consiste nella mancanza di trasparenza. Poiché il soggetto che paga gli asili è diverso dal soggetto che ne fruisce, viene meno ogni automatismo nel controllo del rapporto qualità/prezzo. Il secondo difetto sta nel fatto che il prezzo alla "clientela" è normalmente mantenuto a un livello "politico", cioè basso, e quindi tende a mettere fuori mercato tutte le strutture che avrebbero una qualità leggermente superiore, ma un prezzo significativamente più alto (senza godere di uguali contributi pubblici ed essendo costantemente esposte al rischio di fallimento, in caso di gestione scriteriata). La somma del primo e del secondo difetto porta al terzo, cioè al fatto che le strutture pubbliche sono come la moneta cattiva che scaccia quella buona, innescando una "race to the bottom" che danneggia tanto i contribuenti (che pagano per le inefficienze) quanto i consumatori (che vedono limitata la loro libertà di scelta).
Come se ne esce? Ci sono diversi modi. Uno è quello individuato dal progetto di riforma di Roberto Calderoli, che passa per la definizione di "costi standard". Le strutture che hanno costi visibilmente superiori a quelli medi vengono costrette a tirare la cinghia. Questo metodo ha due limiti: in primo luogo, non riesce a catturare le specificità locali, secondariamente assume che il livello "medio" di spesa sia anche un livello "efficiente". Così non è, perché alla media partecipano anche le strutture inefficienti. Nel lungo termine, ci si aspetta naturalmente un miglioramento medio, ma anche in questo caso tutto è ancorato al caso, e non è detto che non si ricada nel rischio opposto - quello di arrivare a prezzi troppo alti (per la collettività, non per i consumatori) o qualità troppo scadente (per contenere i prezzi).
Un metodo alternativo è quello di lasciar liberi gli enti locali di organizzarsi come pare a loro. Questo è il federalismo. Gli enti locali migliori, sceglieranno di arrivare direttamente al terzo metodo, che è quello di liberalizzare. In un contesto competitivo, dove cioè prezzi e servizi sono liberi (o, in subordine, ma molto in subordine, il servizio "pubblico" viene assegnato tramite gare non farlocche), è il mercato a (a) far emergere il (o i) rapporto/i ottimale/i tra qualità e prezzo, e (b) far emergere diverse soluzioni con diversi rapporti. Naturalmente liberalizzare vorrebbe dire attaccare frontalmente gli interessi di chi beneficia dello status quo, cioè i politici che fanno le nomine e i dipendenti che sono pagati troppo (rispetto al valore dei servizi che producono) oppure sono troppo numerosi (che è lo stesso), o entrambe le cose. Per questa ragione sono molto pessimista. Per scornarsi contro interessi concentrati e consolidati, serve il supporto dell'opinione pubblica. La vicenda della riforma scolastica, che per certi versi è analoga, mostra però che la consuetudine con lo status quo e una certa avversione al rischio (cioè al nuovo) fa nascere strane coalizioni tra fruitori di un servizio scadente, e responsabili di quel servizio. Non saprei come uscirne, ma non c'è nessuna via d'uscita ovvia.
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