Il Secolo XIX, 31 ottobre 2008
“Noi la crisi non la paghiamo”. Lo striscione in testa al corteo di ieri dice tanto, e forse involontariamente, sul sentimento prevalente tra quei cinquemila genovesi. Molti di essi non stavano, in realtà, protestando contro il decreto Gelmini, né marciavano per i tagli della finanziaria. E’ stata, la loro, una manifestazione identitaria: può essere un segno di vitalità democratica, ma certo non è una buona notizia per l’oggetto del contendere, cioè la scuola e l’università. Per certi versi, si è trattato dell’equivalente delle prove di forza che i sindacati diedero nel 1994 e nel 2002, contro la riforma delle pensioni (e la riforma D’Onofrio della scuola) e la revisione dell’articolo 18, rispettivamente. L’analogia non finisce qui. Quattordici anni fa, come sei anni fa e come oggi, la massa dei contestatori accusava il governo di ciò che non aveva fatto né intendeva fare. Il progetto del ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, contiene alcuni aspetti positivi e altri meno; analogamente, la logica dei tagli indiscriminati affronta un problema reale, non necessariamente nel modo migliore. Ma non c’è alcun tentativo di “privatizzazione” della scuola, né vengono messi in discussione i veri punti nevralgici, che vanno dall’allocazione dei finanziamenti all’autonomia degli istituti. Sul Corriere della sera di mercoledì, Michele Salvati ha suggerito che sia proprio l’assenza di un disegno organico, l’insistenza sui dettagli per quanto importanti, a spingere alla rivolta quella strana coalizione tra insegnanti e studenti, bidelli e famiglie, consumatori e fornitori del servizio educativo. Da qui, le critiche all’esecutivo per la sua mancanza di coraggio. Magari fosse così, perché sarebbe segno di una grande maturità da entrambe le parti. La sensazione, però, è che gli scioperi si siano svolti, paradossalmente, in un mondo parallelo in cui il governo dava retta a Salvati e agiva di conseguenza.
Riformare scuola e università richiede uno sforzo enorme, a partire dall’individuazione dei problemi. Problemi di inefficienza, anzitutto, come è emerso con chiarezza dal dibattito, sul Secolo XIX, tra Mauro Barberis e Maurizio Maresca (sulla Stampa di ieri, Luca Ricolfi ha stimato che, risolvendoli, si potrebbe risparmiare fino al 10 per cento). Poi, problemi di qualità: i test internazionali sulla preparazione degli studenti nelle materie scientifiche rivelano un gap drammatico rispetto agli altri paesi; per quel che riguarda l’università, nessuno dei nostri atenei compare tra quelli più reputati. La ragione è che non c’è traccia di meritocrazia, nel nostro percorso educativo. La meritocrazia non è un valore che possa essere sbandierato: è una pratica quotidiana, che dipende dai meccanismi di selezione, interna agli istituti e tra di essi, pubblici o privati che siano. Dopo di che, si può ritenere tranquillamente che il governo non stia affrontando queste criticità, o che le stia affrontando nel modo sbagliato. Ma quando il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, dice che “nelle scuole italiane non ci sono fannulloni, né abbiamo a che fare con le baronie”, non fa altro che allargare la faglia che separa la realtà dalla retorica, cioè il mondo raccontato oggi dai giornali da quello in cui il governo raccoglie la sfida di Salvati. Fannulloni e baroni non sono categorie dello spirito, ma persone in carne e ossa che adottano comportamenti socialmente nocivi, e con la cui esistenza chiunque, tranne forse Epifani, si è più volte scontrato. Negarne l’esistenza è doppiamente ridicolo: perché contraddice l’esperienza di tutti e perché rafforza il sospetto che la battaglia contro Mariastella Gelmini non esprima la, più o meno comprensibile, resistenza a questa riforma, bensì una più vasta ostilità a ogni tipo di riforma.
La manifestazione di ieri può essere compresa solo se si realizza che essa esprime una posizione latamente politica, che ha trovato nella scuola la scorciatoia più facile per organizzare il dissenso. Ciò determina una sovrapposizione opaca tra le legittime ragioni di chi teme provvedimenti concreti e quelle di chi, invece, rema contro a prescindere. La richiesta che sale dalla piazza è tanto forte quanto confusa: cosa vogliono, quelle persone? Se bisogna dar retta allo striscione, non vogliono pagare per la crisi. Che è una richiesta irreale, rarefatta: dalla recessione non si scappa, e in ogni caso il decreto Gelmini e i tagli alla scuola non dipendono dal ciclo economico.
Il fatto che la protesta sia fenomeno diffuso e, almeno in parte, slegato dalle sue motivazioni ufficiali, può anche costituire un’opportunità. Nel 1994, ci si muoveva contro la riforma della previdenza come se le pensioni fossero state azzerate; nel 2002, come se il governo avesse messo in discussione l’intero statuto dei lavoratori; e oggi si fanno le barricate come se in ballo ci fosse davvero una riforma ampia dell’istruzione. Ciò sottende che il costo politico di una piccola riforma sia quasi lo stesso che per una grande. Se, per assurdo, si fosse davvero tentato di privatizzare l’università, l’aspetto delle piazze non sarebbe stato molto diverso. Poiché gli attriti sono i medesimi, allora tanto varrebbe ragionare attorno a una trasformazione che sia davvero radicale, e che investa i centri di potere e le fonti di inefficienza vere: dalle modalità di finanziamento alla razionalizzazione degli istituti e dei corsi di laurea, dalla creazione di meccanismi competitivi alla miglior gestione del personale, fino all’abolizione del valore legale del titolo di studio. Se è corretta l’analisi di Dino Cofrancesco, che ha denunciato la natura corporativa della protesta, allora siamo nel mezzo di una partita a poker, in cui uno dei giocatori dà evidenti segni di nervosismo. Avrà, Mariastella Gelmini, il coraggio di rilanciare?
venerdì 31 ottobre 2008
giovedì 30 ottobre 2008
Giovani Imprenditori Chiavaresi
Leggo che nasce l'associazione dei Giovani Imprenditori del Tigullio, per ora con una decina di soci su un bacino potenziale di circa 6.000. Non so quali possano essere gli scopi o l'efficacia di un'organizzazione del genere, a livello locale, ma se può servire a creare dibattito o a rilanciare l'orgoglio delle imprese, ben venga. Di imprenditori visionari c'è sempre bisogno.
martedì 28 ottobre 2008
Il carbone non si rimpiazza dall'oggi al domani
Il Secolo XIX, 28 ottobre 2008
La battaglia di striscioni tra i dipendenti della centrale Enel di Genova e i militanti di Greenpeace non è lo scontro anacronistico tra economia ed ecologia, lavoro e ambiente. Il reciproco scambio di accuse, clima killer contro ecocazzari, è la versione popolare di uno tra i temi più complessi che la politica oggi si trova ad affrontare, e cioè quale valore si debba dare alla cosiddetta sostenibilità, come affrontare le tante incertezze che a essa sono sottese, e con quali tempi. E’ lo stesso tipo di confronto, per certi versi, che vede su un livello più alto opporsi l’Italia e l’Unione europea sul pacchetto clima, ma in modo più crudo e più vivo. Qui non c’è gioco lobbistico o guerra di cifre: qui c’è chi difende il proprio reddito e chi pensa che le sue attività mettano a repentaglio il futuro di tutti.
Per cominciare, dunque, i dati. L’impianto a carbone che sta tra il molo San Giorgio e l’ex Idroscalo risale al 1927-28, quando era la centrale più grande d’Europa; ma non è, ovviamente, la stessa cosa di allora. I due gruppi originari, da 25 megawatt ciascuno, sono stati più volte sostituiti, e ora la potenza installata è pari a 300 megawatt. I cambiamenti non hanno riguardato solo la crescita dimensionale, ma anche l’adeguamento alle normative ambientali, sempre più stringenti. Questo è un dato cruciale: come tutti gli impianti italiani, anche quello sotto la Lanterna deve rispettare le regole nazionali e comunitarie. Come ogni impianto alimentato a carbone, anche questo ha emissioni di anidride carbonica (CO2), sospettata di contribuire al riscaldamento globale, relativamente alte. Va però notato che la CO2 non è dannosa alla salute o all’ambiente, di per sé – tanto che chiunque la ingurgita inconsapevolmente quando beve bibite gassate. Gli stessi sforzi europei non puntano a limitare le emissioni di biossido di carbonio dalle singole centrali, ma a contenere il totale delle emissioni. Questa è una differenza sostanziale rispetto agli inquinanti propriamente detti, come il monossido di carbonio, gli SOx, gli NOx e le polveri, che in concentrazione eccessiva sono epidemiologicamente correlate a diversi mali.
Dal punto di vista pratico, la centrale genovese serve a soddisfare i consumi cittadini. Non è possibile, semplicemente premere il tasto “off”. “E’ possibile sostituire la potenza della Lanterna con fonti pulite come eolico e solare”, ha detto ieri al Secolo XIX il responsabile campagna energia e clima di Greenpeace, Francesco Tedesco. Ammesso che sia vero, non sarebbe sufficiente: l’impianto Enel lavora, mediamente, tra le quattro e le cinquemila ore all’anno, e soprattutto può entrare in funzione ogni volta che è necessario. Solare ed eolico funzionano, in media, un migliaio di ore all’anno, cioè a parità di potenza installata generano tra un quarto e un quinto dell’elettricità, e per giunta lo fanno quando le condizioni climatiche lo consentono; inoltre, costano di più, per chilowattora prodotto, e l’extracosto ricade sulle spalle dei cittadini attraverso la tariffa. Sarebbe come confrontare due automobili con lo stesso numero di cavalli: una si muove mediamente cinquantamila chilometri l’anno e si mette in moto quando girate la chiave. L’altra è alimentata dal sole: ha un costo-chilometro superiore, vi consente di percorrere al massimo diecimila chilometri all’anno, e cammina solo quando pare a lei. E’ ovvio che questi due veicoli non sono realmente alternativi, nel senso che il secondo non può sostituire il primo. Fuor di metafora, le nuove rinnovabili sono splendide, ma al momento non sono in grado, per ragioni tecnologiche ed economiche, di rimpiazzare le fonti convenzionali, cioè i combustibili fossili e il nucleare. Possono svolgere un ottimo ruolo al loro fianco, ma è irrealistico pensare che possano fare di più. Per questo il valore per la società di un chilowattora a carbone è superiore a quello dello stesso chilowattora solare o eolico – e il suo costo è inferiore.
Ciò non significa che non si possano, nel lungo termine, immaginare cambiamenti anche sostanziali nel nostro panorama energetico. Ma essi non possono non venire dal progresso tecnologico, dallo sviluppo di fonti che siano, al tempo stesso, competitive e pulite. Pretendere mutamenti drastici e immediati è utopistico, se non dannoso. Il carbone, peraltro, occupa un ruolo marginale nel paniere energetico italiano, a differenza di quanto accade, e non senza motivo, nel resto d’Europa – come ha recentemente notato il segretario nazionale della Filcem-Cgil, Giacomo Berni. Anche perché in un settore che, come quello energetico, ha un’alta intensità di capitale, le evoluzioni sono per loro stessa natura morbide, graduali. Difficilmente avvengono con degli strappi bruschi. Sul piano occupazionale, questo significa che i centoventi lavoratori della centrale Enel hanno ragione a difendere il loro posto. E’ chiaro che le loro rivendicazioni hanno l’obiettivo di tutelare la loro posizione individuale, ma essa coincide col più ampio e generale interesse a disporre di forniture energetiche affidabili, continuative, economiche e a impatto ambientale ragionevolmente contenuto. L’Enel si è impegnata con la regione Liguria a smantellare la centrale entro il 2020: dando il tempo di riqualificare il personale, una parte del quale nel frattempo andrà in pensione, e di rimpiazzare l’elettricità oggi prodotta col carbone genovese. Il passaggio da una fonte di energia a un’altra, o meglio l’evoluzione del mix energetico nel suo complesso, non può prescindere dalla creazione di un servizio migliore – cioè efficiente ed economico. Risolvere questioni complesse è difficile e richiede tempo: molto più che scalare la Lanterna.
Crossposted @ RealismoEnergetico.org
La battaglia di striscioni tra i dipendenti della centrale Enel di Genova e i militanti di Greenpeace non è lo scontro anacronistico tra economia ed ecologia, lavoro e ambiente. Il reciproco scambio di accuse, clima killer contro ecocazzari, è la versione popolare di uno tra i temi più complessi che la politica oggi si trova ad affrontare, e cioè quale valore si debba dare alla cosiddetta sostenibilità, come affrontare le tante incertezze che a essa sono sottese, e con quali tempi. E’ lo stesso tipo di confronto, per certi versi, che vede su un livello più alto opporsi l’Italia e l’Unione europea sul pacchetto clima, ma in modo più crudo e più vivo. Qui non c’è gioco lobbistico o guerra di cifre: qui c’è chi difende il proprio reddito e chi pensa che le sue attività mettano a repentaglio il futuro di tutti.
Per cominciare, dunque, i dati. L’impianto a carbone che sta tra il molo San Giorgio e l’ex Idroscalo risale al 1927-28, quando era la centrale più grande d’Europa; ma non è, ovviamente, la stessa cosa di allora. I due gruppi originari, da 25 megawatt ciascuno, sono stati più volte sostituiti, e ora la potenza installata è pari a 300 megawatt. I cambiamenti non hanno riguardato solo la crescita dimensionale, ma anche l’adeguamento alle normative ambientali, sempre più stringenti. Questo è un dato cruciale: come tutti gli impianti italiani, anche quello sotto la Lanterna deve rispettare le regole nazionali e comunitarie. Come ogni impianto alimentato a carbone, anche questo ha emissioni di anidride carbonica (CO2), sospettata di contribuire al riscaldamento globale, relativamente alte. Va però notato che la CO2 non è dannosa alla salute o all’ambiente, di per sé – tanto che chiunque la ingurgita inconsapevolmente quando beve bibite gassate. Gli stessi sforzi europei non puntano a limitare le emissioni di biossido di carbonio dalle singole centrali, ma a contenere il totale delle emissioni. Questa è una differenza sostanziale rispetto agli inquinanti propriamente detti, come il monossido di carbonio, gli SOx, gli NOx e le polveri, che in concentrazione eccessiva sono epidemiologicamente correlate a diversi mali.
Dal punto di vista pratico, la centrale genovese serve a soddisfare i consumi cittadini. Non è possibile, semplicemente premere il tasto “off”. “E’ possibile sostituire la potenza della Lanterna con fonti pulite come eolico e solare”, ha detto ieri al Secolo XIX il responsabile campagna energia e clima di Greenpeace, Francesco Tedesco. Ammesso che sia vero, non sarebbe sufficiente: l’impianto Enel lavora, mediamente, tra le quattro e le cinquemila ore all’anno, e soprattutto può entrare in funzione ogni volta che è necessario. Solare ed eolico funzionano, in media, un migliaio di ore all’anno, cioè a parità di potenza installata generano tra un quarto e un quinto dell’elettricità, e per giunta lo fanno quando le condizioni climatiche lo consentono; inoltre, costano di più, per chilowattora prodotto, e l’extracosto ricade sulle spalle dei cittadini attraverso la tariffa. Sarebbe come confrontare due automobili con lo stesso numero di cavalli: una si muove mediamente cinquantamila chilometri l’anno e si mette in moto quando girate la chiave. L’altra è alimentata dal sole: ha un costo-chilometro superiore, vi consente di percorrere al massimo diecimila chilometri all’anno, e cammina solo quando pare a lei. E’ ovvio che questi due veicoli non sono realmente alternativi, nel senso che il secondo non può sostituire il primo. Fuor di metafora, le nuove rinnovabili sono splendide, ma al momento non sono in grado, per ragioni tecnologiche ed economiche, di rimpiazzare le fonti convenzionali, cioè i combustibili fossili e il nucleare. Possono svolgere un ottimo ruolo al loro fianco, ma è irrealistico pensare che possano fare di più. Per questo il valore per la società di un chilowattora a carbone è superiore a quello dello stesso chilowattora solare o eolico – e il suo costo è inferiore.
Ciò non significa che non si possano, nel lungo termine, immaginare cambiamenti anche sostanziali nel nostro panorama energetico. Ma essi non possono non venire dal progresso tecnologico, dallo sviluppo di fonti che siano, al tempo stesso, competitive e pulite. Pretendere mutamenti drastici e immediati è utopistico, se non dannoso. Il carbone, peraltro, occupa un ruolo marginale nel paniere energetico italiano, a differenza di quanto accade, e non senza motivo, nel resto d’Europa – come ha recentemente notato il segretario nazionale della Filcem-Cgil, Giacomo Berni. Anche perché in un settore che, come quello energetico, ha un’alta intensità di capitale, le evoluzioni sono per loro stessa natura morbide, graduali. Difficilmente avvengono con degli strappi bruschi. Sul piano occupazionale, questo significa che i centoventi lavoratori della centrale Enel hanno ragione a difendere il loro posto. E’ chiaro che le loro rivendicazioni hanno l’obiettivo di tutelare la loro posizione individuale, ma essa coincide col più ampio e generale interesse a disporre di forniture energetiche affidabili, continuative, economiche e a impatto ambientale ragionevolmente contenuto. L’Enel si è impegnata con la regione Liguria a smantellare la centrale entro il 2020: dando il tempo di riqualificare il personale, una parte del quale nel frattempo andrà in pensione, e di rimpiazzare l’elettricità oggi prodotta col carbone genovese. Il passaggio da una fonte di energia a un’altra, o meglio l’evoluzione del mix energetico nel suo complesso, non può prescindere dalla creazione di un servizio migliore – cioè efficiente ed economico. Risolvere questioni complesse è difficile e richiede tempo: molto più che scalare la Lanterna.
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lunedì 27 ottobre 2008
Lies, damned lies, and statistics
Nella famosa famosa e tagliente descrizione di Benjamin Disraeli, le statistiche sarebbero il peggior tipo di bugie - dopo le bugie normali e le maledette bugie, appunto. Forse non è sempre vero, ma vi sono casi in cui lo è al di là di ogni ragionevole dubbio. Leggo che, secondo un'indagine della Asl 4, nel Tigullio secondo cui un bambino su quattro (tra gli studenti di terza elementare) sarebbe sovrappeso, o addirittura a rischio obesità. Sarà anche così, ma gli occhi mi danno un'immagine diversa; in tutta sincerità, andando in giro non vedo tutti questi ciccioni in miniatura, sulle strade. Dove sta l'errore? Negli occhi o nella statistica? La mia risposta istintiva è che, senza dubbio, sta negli occhi. Se l'indagine della Asl è stata svolta con metodo, e non c'è ragione di credere che non sia così, i loro numeri valgono più del mio sguardo distratto su un campione casuale. Però, potrebbe esserci anche un altro trucco. Che aiuta anche a comprendere l'inspiegabile (altrimento) epidemia di obiesità che, a cavallo del nuovo millennio, sembra essere esplosa in tutto il mondo. Come spiega bene questo articolo dal sito di Forces, nel 1998 venne cambiato l'indice di massa corporea, cioè il rapporto tra il peso espresso in chilogrammi e il quadrato dell'altezza espressa in metri. Ulteriori "aggiornamenti" sono stati introdotti negli anni successivi, con l'effetto di aumentare artificialmente il numero di quanti riteniamo "obesi". E' vero, insomma, che c'è stato un aumento: ma non è dovuto all'ingrassamento della popolazione, quanto al fatto che ciò che oggi riteniamo "obeso" non lo era solo pochi anni fa. Non sono del tutto d'accordo con Disraeli: le statistiche possono esprimere delle verità. Ma la verità bisogna dirla tutta, altrimenti una verità parziale diventa una mezza bugia.
domenica 26 ottobre 2008
Off topic 3
Mio commento sul Secolo XIX a proposito delle dichiarazioni di Alan Greenspan sulla crisi.
sabato 25 ottobre 2008
Il protezionismo dell'aperitivo
Ai baristi genovesi non piace la concorrenza. Forti dei numeri secondo cui, nella città della Lanterna, ci sono più bar che negli altri capoluoghi italiani, essi chiedono al comune di limitare il numero di licenze, visto anche l'effetto della crisi che si fa sentire. A Palazzo Tursi, trovano porte spalancate. Peccato che tutto ciò sia contro gli interessi dei consumatori. Ci sono due modi per selezionare quali e quanti bar debban stare all'interno di un'area - per esempio, il centro storico genovese. Uno è il mercato; l'altro la regolamentazione. In un sistema di mercato, chiunque è libero di avviare un esercizio. Se offre un servizio migliore, diverso, o più economico degli altri, guadagna quote di mercato; altrimento, viene espulso rapidamente. Sono i clienti, coi loro soldi, a decidere. Attraverso la regolamentazione, la scelta è invece puramente burocratica: cioè, dipende dall'umore dell'assessore, dall'oroscopo dei funzionari, o dall'entità delle tangenti. In generale, però, la regolamentazione burocratica (come mostra il caso dei taxi, che a Genova sono probabilmente "troppi") tende a conservare l'esistente, buono o cattivo che sia. Poiché non necessariamente l'esistente è ottimale - anzi, non lo è quasi mai - questo si traduce in un danno inflitto tanto ai consumatori, che possono contare su un'offerta meno dinamica e competitiva, quanto agli outsider, ai quali è impedito di giocare le loro carte. Tempo fa è uscita la notizia che il comune di Imperia ha deciso di rimuovere tutti i vincoli all'avvio di nuovi bar, e dicevamo che "vorremmo essere tutti imperiesi". Adesso, ancora di più.
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venerdì 24 ottobre 2008
Bravo Limoncini
Il sindaco di Cicagna e consigliere provinciale della Lega Nord, Marco Limoncini, ha avanzato una proposta molto intelligente per far fronte al "flagello" dei cinghiali. Quali che siano le ragioni, questi "maiali molto setolosi" si sono, negli ultimi anni, moltiplicati. Col numero ne è cresciuta la fame e il coraggio, al punto che spesso si spingono a ridosso delle case rurali, dove creano scompiglio, disordine e rovinano i campi, oltre a rappresentare una potenziale minaccia per l'incolumità degli abitanti. Dice: non sono pericolosi se non in circostanze molto rare. Bene, ma se devi uscire da, o rientrare in, casa e c'è un ungulato che se la spassa sul tuo zerbino, vaglielo a spiegare che quella non è una circostanza "molto rara". Comunque, poiché ovviamente non c'è modo di impedire ai cinghiali di recarsi dove più gli garba, Limoncini ha proposto di consentire a tutti coloro che dispongono di armi legali (e permesso di caccia, si potrebbe aggiungere) di abbattere i cinghiali trovati trovati nel giardino. E' un compromesso sensato. Anche al di fuori della stagione di caccia, pur con le dovute attenzioni e precauzioni, quando di mezzo c'è non dico la sicurezza, ma anche solo la tranquillità e il benessere degli esseri umani, qualche piccolo strappo alla regola possiamo pure permettercelo.
giovedì 23 ottobre 2008
I cittadini faranno le spese della spesa comunale
L'assessore al Commercio di Sestri Levante, Enrico Pozzo, ha proposto di creare una sorta di bonus presso i commercianti che, maturando nelle prime tre settimane del mese, renda più liquidi i clienti nell'ultima. Le reazioni dei commercianti sembrano prevalentemente positive, ma non mancano le voci contrarie. Non mi è chiaro cosa abbia in mente l'assessore: una sorta di "fidelity card" per ciascun commerciante? E finanziata come? Se si tratta di denaro pubblico, mi sembra una pessima idea. Se, cioè, il comune intende intervenire per coprire la differenza tra i prezzi scontati e quelli di mercato, mi sembra un meccanismo opaco, enormemente costoso dal punto di vista gestionale, e che alla fine è poco significativo in termini di aiuto concreto a chi ha bisogno. (Nota bene: identificare chi ha bisogno, dovrebbe essere il presupposto, tanto necessario quando complicato). Una variante, peggiorativa, di questo approccio è quello alla Tony Soprano: "Bel negozio. Non vorrei che vi succedesse qualcosa di brutto" (battuta rubata a Greg Mankiw).
Un'ulteriore variante è quella che sembra più probabile a leggere l'articolo del Secolo. Cioè, che il comune si faccia promotore di una sorta di carta fedeltà, individuale o collettiva, tra i commercianti. Se fosse una carta individuale, avrei delle grandi perplessità: lo scopo delle card è, ovviamente, fidelizzare la clientela, cosa di per sé lodevole. Ma, in questo caso, l'effetto potrebbe essere anche quello di "segmentare" il mercato, facendo venir meno la concorrenza tra i commercianti. Quindi, paradossalmente, l'esito potrebbe essere un cartello costruito dal comune, basato su una spartizione del mercato, dal quale in linea teorica ci si può attendere nel medio termine un aumento dei prezzi nelle prime tre settimane del mese (i commercianti fessi non ci sono: i commercianti fessi falliscono). Se, invece, si tratta di una card collettiva, allora non ne vedo il senso: perché mai i commercianti dovrebbero scontare la spesa nell'ultima settimana a chi, nelle prime tre, ha comprato altrove? La dinamica che si innesterebbe sarebbe questa: nelle prime tre settimane del mese, tutti comprano dove si riforniscono solitamente, cioè dove trovano il compromesso qualità/prezzo più conveniente per il loro palato e il loro portafoglio. Nella quarta, tutti andrebbero invece a comprare dove la qualità è migliore (e presumibilmente i prezzi sono più alti). Quindi, il risultato sarebbe che i negozi low cost vedrebbero ridursi la loro quota di mercato nella quarta settimana, mentre quelli migliori finirebbero, non essendo fessi per il teorema di cui sopra, a ridurre la qualità (cioè i costi).
Quindi, la card comunale può portare a tre conclusioni, o a una combinazione di esse: un aumento del prelievo fiscale (a parità di altre condizioni, e tra l'altro più per finanziare l'enforcement che per coprire il delta di spesa); un aumento dei prezzi nelle prime tre settimane del mese; un peggioramento della qualità nell'ultima settimana del mese. Siamo sicuri di ritenerlo desiderabile?
Un'ulteriore variante è quella che sembra più probabile a leggere l'articolo del Secolo. Cioè, che il comune si faccia promotore di una sorta di carta fedeltà, individuale o collettiva, tra i commercianti. Se fosse una carta individuale, avrei delle grandi perplessità: lo scopo delle card è, ovviamente, fidelizzare la clientela, cosa di per sé lodevole. Ma, in questo caso, l'effetto potrebbe essere anche quello di "segmentare" il mercato, facendo venir meno la concorrenza tra i commercianti. Quindi, paradossalmente, l'esito potrebbe essere un cartello costruito dal comune, basato su una spartizione del mercato, dal quale in linea teorica ci si può attendere nel medio termine un aumento dei prezzi nelle prime tre settimane del mese (i commercianti fessi non ci sono: i commercianti fessi falliscono). Se, invece, si tratta di una card collettiva, allora non ne vedo il senso: perché mai i commercianti dovrebbero scontare la spesa nell'ultima settimana a chi, nelle prime tre, ha comprato altrove? La dinamica che si innesterebbe sarebbe questa: nelle prime tre settimane del mese, tutti comprano dove si riforniscono solitamente, cioè dove trovano il compromesso qualità/prezzo più conveniente per il loro palato e il loro portafoglio. Nella quarta, tutti andrebbero invece a comprare dove la qualità è migliore (e presumibilmente i prezzi sono più alti). Quindi, il risultato sarebbe che i negozi low cost vedrebbero ridursi la loro quota di mercato nella quarta settimana, mentre quelli migliori finirebbero, non essendo fessi per il teorema di cui sopra, a ridurre la qualità (cioè i costi).
Quindi, la card comunale può portare a tre conclusioni, o a una combinazione di esse: un aumento del prelievo fiscale (a parità di altre condizioni, e tra l'altro più per finanziare l'enforcement che per coprire il delta di spesa); un aumento dei prezzi nelle prime tre settimane del mese; un peggioramento della qualità nell'ultima settimana del mese. Siamo sicuri di ritenerlo desiderabile?
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martedì 21 ottobre 2008
domenica 19 ottobre 2008
sabato 18 ottobre 2008
Credere, obbedire, combattere
Il Popolo della libertà "non è un partito liberale di massa". Lo dichiara la voce autorevole di don Gianni Baget Bozzo, ascoltato consigliere del Cav., in un polemico intervento sul Giornale di oggi. Il sacerdote genovese prende le mosse dalla maretta che scuote il gruppo consiliare del Pdl nel comune di Genova, ufficialmente e risolutamente contrario alla realizzazione della moschea nel capoluogo ligure, nei fatti diviso. Da un lato, l'ex sottosegretario ed ex parlamentare Alberto Gagliardi, dall'altro (e più rilevante) il senatore già candidato sindaco Enrico Musso, che ha promosso un convegno a più voci e, in passato, ha assunto posizioni più moderate rispetto a quelle del suo partito (e della Lega).
La tesi di don Gianni è, sostanzialmente, che dentro il Pdl nessuno è letto per meriti personali, e tutti per grazia ricevuta. Forse è vero (anche se, almeno nel caso di Musso, qualche merito deve pur esserci, se nella corsa per Palazzo Tursi i voti personali hanno superato quelli di lista). Ma è un bene? Su questo ho, sinceramente, dei seri dubbi. Non sono un esperto di sistemi elettorali, tema che (mi perdoneranno i miei amici che la pensano diversamente) trovo peraltro piuttosto noioso. Mi pare però che sia importante concedere al cittadino qualche potere che non sia il mero acquisto a busta chiusa della proposta di un partito. Questo potere si può declinare in due modi: in un sistema maggioritario, voto un candidato scelto da altri ma conosco la persona che beneficerà del mio appoggio; in un sistema proporzionale, scelgo il candidato sapendo che il mio voto potrebbe portare acqua al mulino di un altro, più abile ad aggregare consenso. La terza via italiana è quella di un sistema proporzionale nel quale questo rischio è abolito, nel senso che voto il partito senza sapere la persona; o che, per votare una persona che apprezzo, sono costretto ad appoggiare implicitamente tutti coloro che, nell'ordinamento della lista, arrivano prima. Questo porta al risultato che è stato mirabilmente sintetizzato dal presidente del consiglio, quando ha affermato che il ruolo dei parlamentari è quello di alzare la manina per dir di sì (o di no, se stanno all'opposizione) alle decisioni del governo.
L'idea che gli eletti debbano rispondere unicamente al partito, e mai alla loro coscienza (o al loro interesse), mi sembra non solo velleitaria, ma soprattutto umiliante - per gli eletti, e per chi li vota. Nel senso che, se una persona occupa un ruolo, si suppone che debba dare un contributo. La democrazia è un meccanismo molto imperfetto che consente a quanti subiscono tale ruolo di giudicare, una volta ogni n anni, chi lo occupa. A che serve eleggere e farsi eleggere, se poi coloro che occupano una poltrona devono comportarsi come automi e credere, obbedire, combattere? E, analogamente, che senso hanno tutti i discorsi che tutti facciamo, chi al bar chi sui giornali (credetemi, non c'è grande differenza), sull'esigenza di selezionare una classe dirigente cazzuta? Se l'apporto del singolo eletto si deve ridurre al sottostare agli ordini che vengono dal piano di sopra, allora il singolo eletto non serve, è inutile. Magari è anche così, ma allora tanto varrebbe prenderne atto e abolire le assemblee, mantenendo in vita solo gli organi di governo. Non sto dicendo che sarebbe sbagliato o controproducente, sto solo dicendo che ci risparmierebbe un sacco di noie e di costi.
Sto anche dicendo che quella di Baget mi sembra una visione riduttiva del ruolo dei parlamenti, che sono figli della generosa illusione liberale secondo cui era possibile imbrigliare il potere, dividendolo. L'illusione è fallita, sostanzialmente, come qualche secolo di parlamentarismo dimostra. Ma non mi pare una buona ragione per buttare il bambino e tenere l'acqua sporca.
La tesi di don Gianni è, sostanzialmente, che dentro il Pdl nessuno è letto per meriti personali, e tutti per grazia ricevuta. Forse è vero (anche se, almeno nel caso di Musso, qualche merito deve pur esserci, se nella corsa per Palazzo Tursi i voti personali hanno superato quelli di lista). Ma è un bene? Su questo ho, sinceramente, dei seri dubbi. Non sono un esperto di sistemi elettorali, tema che (mi perdoneranno i miei amici che la pensano diversamente) trovo peraltro piuttosto noioso. Mi pare però che sia importante concedere al cittadino qualche potere che non sia il mero acquisto a busta chiusa della proposta di un partito. Questo potere si può declinare in due modi: in un sistema maggioritario, voto un candidato scelto da altri ma conosco la persona che beneficerà del mio appoggio; in un sistema proporzionale, scelgo il candidato sapendo che il mio voto potrebbe portare acqua al mulino di un altro, più abile ad aggregare consenso. La terza via italiana è quella di un sistema proporzionale nel quale questo rischio è abolito, nel senso che voto il partito senza sapere la persona; o che, per votare una persona che apprezzo, sono costretto ad appoggiare implicitamente tutti coloro che, nell'ordinamento della lista, arrivano prima. Questo porta al risultato che è stato mirabilmente sintetizzato dal presidente del consiglio, quando ha affermato che il ruolo dei parlamentari è quello di alzare la manina per dir di sì (o di no, se stanno all'opposizione) alle decisioni del governo.
L'idea che gli eletti debbano rispondere unicamente al partito, e mai alla loro coscienza (o al loro interesse), mi sembra non solo velleitaria, ma soprattutto umiliante - per gli eletti, e per chi li vota. Nel senso che, se una persona occupa un ruolo, si suppone che debba dare un contributo. La democrazia è un meccanismo molto imperfetto che consente a quanti subiscono tale ruolo di giudicare, una volta ogni n anni, chi lo occupa. A che serve eleggere e farsi eleggere, se poi coloro che occupano una poltrona devono comportarsi come automi e credere, obbedire, combattere? E, analogamente, che senso hanno tutti i discorsi che tutti facciamo, chi al bar chi sui giornali (credetemi, non c'è grande differenza), sull'esigenza di selezionare una classe dirigente cazzuta? Se l'apporto del singolo eletto si deve ridurre al sottostare agli ordini che vengono dal piano di sopra, allora il singolo eletto non serve, è inutile. Magari è anche così, ma allora tanto varrebbe prenderne atto e abolire le assemblee, mantenendo in vita solo gli organi di governo. Non sto dicendo che sarebbe sbagliato o controproducente, sto solo dicendo che ci risparmierebbe un sacco di noie e di costi.
Sto anche dicendo che quella di Baget mi sembra una visione riduttiva del ruolo dei parlamenti, che sono figli della generosa illusione liberale secondo cui era possibile imbrigliare il potere, dividendolo. L'illusione è fallita, sostanzialmente, come qualche secolo di parlamentarismo dimostra. Ma non mi pare una buona ragione per buttare il bambino e tenere l'acqua sporca.
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martedì 14 ottobre 2008
Del perché i politici hanno diritto al parcheggio privilegiato
I parcheggi stanno diventando il tema politico più incandescente del momento. E non solo per la vicenda che ha avuto per protagonista Fabio Broglia, il consigliere regionale accusato di aver duplicato un pass per disabili allo scopo di poter lasciare la macchina comodamente sistemata nel centro di Sestri Levante. Sono altre le storie che ho trovato interessanti. La prima riguarda la spaccatura interna al Pdl sestrese, coi consiglieri contro il loro capogruppo (ed ex candidato sindaco), Giuseppe Ianni, che aveva di fatto appoggiato la decisione dell'assessore Massimo Bixio di dotare i consiglieri di un pass. La seconda, e del tutto analoga, questione avviene a Genova, dove alcuni assessori e consiglieri provinciali pare approfittassero (non ho capito se di diritto o di fatto) di alcuni posti nel garage della provincia. Non voglio unirmi al coro di quanti denunciano l'arroganza della casta, o simili. Un politico è una persona a cui viene delegato il potere di amministrare la cosa pubblica; e normalmente gli elettori chiedono al politico di ampliare la sfera di influenza pubblica, non di restringerla. Non si capisce in base a cosa, allora, si potrebbe chiedere ai politici di approfittare del loro status e del potere che hanno per gli altri, ma non per se stessi. Se si accetta e si invoca lo statalismo, allora bisogna accettarne e subirne tutte le conseguenze, compresi i privilegi feudali che la casta si vuole attribuire. Il problema non è se approfittano di questo potere oppure no: il problema è se ce l'hanno oppure no (questo e molti altri più seri e sostanziali). Chi non coglie questa chiamiamola sfumatura, non coglie "il sugo di tutta la storia", come disse un signore famoso. Queste sono le regole del gioco. Se non vi vanno bene le regole, e a me non vanno bene, allora chiedete di cambiare le regole, e pretendete un alleggerimento dello Stato - meno tasse, meno enti, meno leggi. Ma non potere volere la botte piena e il politico ubriaco.
domenica 12 ottobre 2008
Il Terzo Valico tra Keynes e la crisi
Ho spedito questa lettera all'edizione genovese del Giornale.
Caro Direttore,
Sul Giornale di domenica 12 ottobre 2008, Walter Bertini sostiene che la realizzazione delle grandi infrastrutture, come il Terzo Valico, potrebbe aiutare l’Europa a uscire dalla crisi finanziaria. Il riferimento storico a cui Bertini guarda è quello del New Deal, cioè il massiccio piano di investimenti pubblici voluto dal presidente americano Franklin D. Roosevelt. Allo scopo di consentire un nuovo New Deal europeo, egli propone di studiare meccanismi che consentano di porre la spesa per questo genere di investimenti al di fuori del vincolo del 3 per cento al rapporto tra deficit e Pil degli Stati membri, sancito dal trattato di Maastricht. Questa analisi è discutibile sotto tre punti di vista: storico, teorico e pratico.
Dal punto di vista storico, la crisi del ’29 fu causata principalmente da una cattiva politica monetaria. L’interventismo rooseveltiano non ebbe alcuna virtù salvifica, ma prolungò gli effetti del crollo borsistico per oltre dieci anni e ne aggravò l’impatto sull’economia reale. Posto che il paragone tra il 1929 e il 2008 non tiene (se non altro perché oggi, fortunatamente, non si vedono e non si prevedono i tassi d’inflazione e disoccupazione di allora), vi sono ragioni per credere che la spesa pubblica non possa risolvere un fenomeno di questo genere (la sostanziale indifferenza dei mercati ai salvataggi a catena di questi giorni ne è una conferma). La tesi di Bertini, secondo cui “lo Stato tornò a investire in grandi opere infrastrutturali che potevano assicurare migliaia di posti di lavoro, fatturato per le imprese e gettito per le casse pubbliche”, è risibile. Infatti lo Stato poteva e può reperire risorse in due modi: attraverso il prelievo fiscale, o stampando moneta (e producendo inflazione). In entrambi i casi, il risultato era ed è quello di impoverire cittadini e imprese e redistribuire risorse, normalmente in modo inefficiente. Infatti, delle due l’una: o le infrastrutture, come il Terzo Valico, servono, oppure no. Nel primo caso, esse vanno realizzate in nome della loro utilità, e non a causa di ragioni congiunturali. Nel secondo, non c’è crisi che possa rendere utile un’opera inutile. In entrambi i casi, la riflessione su quali infrastrutture debbano essere realizzate e quali no dovrebbe essere sottratta a considerazioni relative al ciclo economico. Se fosse vero, d’altronde, che l’intervento pubblico genera ricchezza, il Mezzogiorno d’Italia dovrebbe essere una tra le aree più progredite d’Europa, il Nordest una tra le più povere. Guardacaso, accade il contrario. In generale, un buon indicatore dell’utilità di un’infrastruttura è la sua capacità di attirare finanziamenti privati: è su questo che si dovrebbe misurare l’urgenza del Terzo Valico, non sulle condizioni dell’economia in generale.
Una conseguenza di tutto ciò è che il rigore dei conti pubblici è di fondamentale importanza proprio nei momenti di vacche magre, quando più alta è la tentazione dello spreco e quando più rischioso è l’aumento della spesa, che necessariamente presuppone un pari aumento del prelievo (attuale o futuro) e, dunque, la creazione di una zavorra per l’economia reale. Non c’è nulla che i governi possano fare per accelerare la fine della crisi, se non ritirarsi nel cantuccio che gli spetta: scrivere regole rigorose ma semplici, provvedere all’erogazione dei servizi pubblici in modo efficiente, rimuovere tutti gli ostacoli alla crescita dell’economia. Tra di essi, alte tasse, eccessi regolatori e spesa pubblica.
Per uscire dalla crisi del 2008, l’unica cosa che non serve sono quelle politiche pubbliche che trasformarono, ottant’anni fa, una crisi di Wall Street in una Grande Depressione.
Carlo Stagnaro
www.iltigullio.info
Caro Direttore,
Sul Giornale di domenica 12 ottobre 2008, Walter Bertini sostiene che la realizzazione delle grandi infrastrutture, come il Terzo Valico, potrebbe aiutare l’Europa a uscire dalla crisi finanziaria. Il riferimento storico a cui Bertini guarda è quello del New Deal, cioè il massiccio piano di investimenti pubblici voluto dal presidente americano Franklin D. Roosevelt. Allo scopo di consentire un nuovo New Deal europeo, egli propone di studiare meccanismi che consentano di porre la spesa per questo genere di investimenti al di fuori del vincolo del 3 per cento al rapporto tra deficit e Pil degli Stati membri, sancito dal trattato di Maastricht. Questa analisi è discutibile sotto tre punti di vista: storico, teorico e pratico.
Dal punto di vista storico, la crisi del ’29 fu causata principalmente da una cattiva politica monetaria. L’interventismo rooseveltiano non ebbe alcuna virtù salvifica, ma prolungò gli effetti del crollo borsistico per oltre dieci anni e ne aggravò l’impatto sull’economia reale. Posto che il paragone tra il 1929 e il 2008 non tiene (se non altro perché oggi, fortunatamente, non si vedono e non si prevedono i tassi d’inflazione e disoccupazione di allora), vi sono ragioni per credere che la spesa pubblica non possa risolvere un fenomeno di questo genere (la sostanziale indifferenza dei mercati ai salvataggi a catena di questi giorni ne è una conferma). La tesi di Bertini, secondo cui “lo Stato tornò a investire in grandi opere infrastrutturali che potevano assicurare migliaia di posti di lavoro, fatturato per le imprese e gettito per le casse pubbliche”, è risibile. Infatti lo Stato poteva e può reperire risorse in due modi: attraverso il prelievo fiscale, o stampando moneta (e producendo inflazione). In entrambi i casi, il risultato era ed è quello di impoverire cittadini e imprese e redistribuire risorse, normalmente in modo inefficiente. Infatti, delle due l’una: o le infrastrutture, come il Terzo Valico, servono, oppure no. Nel primo caso, esse vanno realizzate in nome della loro utilità, e non a causa di ragioni congiunturali. Nel secondo, non c’è crisi che possa rendere utile un’opera inutile. In entrambi i casi, la riflessione su quali infrastrutture debbano essere realizzate e quali no dovrebbe essere sottratta a considerazioni relative al ciclo economico. Se fosse vero, d’altronde, che l’intervento pubblico genera ricchezza, il Mezzogiorno d’Italia dovrebbe essere una tra le aree più progredite d’Europa, il Nordest una tra le più povere. Guardacaso, accade il contrario. In generale, un buon indicatore dell’utilità di un’infrastruttura è la sua capacità di attirare finanziamenti privati: è su questo che si dovrebbe misurare l’urgenza del Terzo Valico, non sulle condizioni dell’economia in generale.
Una conseguenza di tutto ciò è che il rigore dei conti pubblici è di fondamentale importanza proprio nei momenti di vacche magre, quando più alta è la tentazione dello spreco e quando più rischioso è l’aumento della spesa, che necessariamente presuppone un pari aumento del prelievo (attuale o futuro) e, dunque, la creazione di una zavorra per l’economia reale. Non c’è nulla che i governi possano fare per accelerare la fine della crisi, se non ritirarsi nel cantuccio che gli spetta: scrivere regole rigorose ma semplici, provvedere all’erogazione dei servizi pubblici in modo efficiente, rimuovere tutti gli ostacoli alla crescita dell’economia. Tra di essi, alte tasse, eccessi regolatori e spesa pubblica.
Per uscire dalla crisi del 2008, l’unica cosa che non serve sono quelle politiche pubbliche che trasformarono, ottant’anni fa, una crisi di Wall Street in una Grande Depressione.
Carlo Stagnaro
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martedì 7 ottobre 2008
Corfole!
E' in distribuzione il nuovo numero del Corriere della Fontanabuona e del Levante. Segnalo il mio editoriale che prende lo spunto dal convegno di San Michele Valore Impresa, e un dibattito tra me e Paolo Smeraldi (che pure è un autore latitante di questo blog) sulle delibere antiprostituzione.
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Chi si fa i fatti suoi...
Sabato scorso si è celebrata a Sestri Levante, nella chiesa di San Pietro in Vincoli, la prima messa in latino dai tempi del Concilio. Un gruppo di fedeli aveva a suo tempo presentato formale e regolare richiesta al vescovo di Chiavari, monsignor Alberto Tanasini, e ha ottenuto di poter assistere al rito due volte al mese. Qualche difficoltà nella ricerca del sacerdote, visto che tra i parroci sestresi pare nessuno si sia reso disponibile. Così la messa è stata celebrata da un prete chiavarese. Poco male. Il fatto sarebbe di poco interesse - nel senso che la religione e soprattutto il modo in cui ciascuno interpreta il suo rapporto con Dio è una faccenda talmente privata che sarebbe quasi offensivo parlarne su un blog, come questo, tra la politica e il cazzeggio - se non avesse avuto una dimensione pubblica. Che va al di là del messaggio trasmesso da quel tipo di messa e da quel tipo di fedeli. Una dimensione diversa, più piccina e più impicciona. Come riferisce il Secolo, la messa in latino "divide Sestri". A intervenire contro di essa sono, tra gli altri, il priore della comunità dei sacerdoti sestresi, don Pino Bacigalupo, e il sindaco, Andrea Lavarello.
Dice don Pino: "C'erano perplessità e restano soprattutto perché la richiesta è partita da un gruppo limitatissimo di persone. Questa è la messa di Pio V e del Concilio di Trento... Si vede che chi ne ha fatto richiesta è un gruppo di persone chic". Ora, posto che non voglio entrare nel merito, posto che non penso che essere "chic" sia un insulto, e posto che la questione del pastore e delle pecorelle smarrite (se il parroco ritiene che questo siano i fedeli affezionati al vecchio rito) me la ricordavo in maniera diversa. Posto tutto questo, con rispetto parlando, don Pino ci è o ci fa? Nel senso che il "gruppo limitatissimo di persone" era comunque composto da 71 individui, secondo quanto riferisce il quotidiano locale, che mi sembra un numero dignitosissimo. E, a prescindere da questo, non capisco perché don Pino ritenga utile parlare in questo modo alla stampa. La separazione tra Stato e chiesa, che è un po' una barzelletta (ma non nel senso convenzionale, come spiega qui Carlo Lottieri), dovrebbe essere intesa soprattutto come una tutela a favore della Chiesa contro la politicizzazione. Se la Chiesa è cattolica, cioè universale, non può permettersi di mettere in campo il derby - conservatori contro progressisti - e in ogni caso non può permettersi di affrontare coi criteri del teatrino partitico questioni che, semplicemente, non esistono.
Quanto sia profondo l'errore del parroco sestrese lo rivela l'intervento di Lavarello, che subito, direbbe Peppone, l'ha buttata in politica. "Viva la libertà - ha premesso, col tipico artificio retorico di chi la libertà la vuole abbattere (come quelli che esordiscono con "non sono razzista ma...") - Questa è una città in cui da sempre prevale, a livello numerico, una sensibilità di sinistra. E' una città che guarda allo sviluppo. Se poi ci sono forze che vanno in direzioni diverse... beh, siamo pluralisti". A parte che scopro ora che il latino è di destra, nelle parole di Lavarello si nasconde tutta la violenza che necessariamente sta alla base della politicizzazione della vita privata. Chissenefrega se a Sestri la maggior parte della gente preferisce la messa in italiano, o preferisce non andare a messa? E chissenefrega se, agli occhi del sindaco, la messa in latino è un buffo orpello di persone restate indietro? La libertà è, appunto, la possibilità per ciascuno di fare quel che gli pare e piace, purché non danneggi il prossimo. Dal punto di vista "sociale", quello che è accaduto sabato è molto semplice: un gruppo di persone che aderiscono a una "associazione privata" (la Chiesa) hanno scelto, secondo le regole di quell'associazione, di organizzare un evento pacifico che non ha aggredito o disturbato nessuno. Perché mai il primo cittadino dovrebbe dare la sua approvazione? Coraggio, statalisti, buttate giù le carte.
Dice don Pino: "C'erano perplessità e restano soprattutto perché la richiesta è partita da un gruppo limitatissimo di persone. Questa è la messa di Pio V e del Concilio di Trento... Si vede che chi ne ha fatto richiesta è un gruppo di persone chic". Ora, posto che non voglio entrare nel merito, posto che non penso che essere "chic" sia un insulto, e posto che la questione del pastore e delle pecorelle smarrite (se il parroco ritiene che questo siano i fedeli affezionati al vecchio rito) me la ricordavo in maniera diversa. Posto tutto questo, con rispetto parlando, don Pino ci è o ci fa? Nel senso che il "gruppo limitatissimo di persone" era comunque composto da 71 individui, secondo quanto riferisce il quotidiano locale, che mi sembra un numero dignitosissimo. E, a prescindere da questo, non capisco perché don Pino ritenga utile parlare in questo modo alla stampa. La separazione tra Stato e chiesa, che è un po' una barzelletta (ma non nel senso convenzionale, come spiega qui Carlo Lottieri), dovrebbe essere intesa soprattutto come una tutela a favore della Chiesa contro la politicizzazione. Se la Chiesa è cattolica, cioè universale, non può permettersi di mettere in campo il derby - conservatori contro progressisti - e in ogni caso non può permettersi di affrontare coi criteri del teatrino partitico questioni che, semplicemente, non esistono.
Quanto sia profondo l'errore del parroco sestrese lo rivela l'intervento di Lavarello, che subito, direbbe Peppone, l'ha buttata in politica. "Viva la libertà - ha premesso, col tipico artificio retorico di chi la libertà la vuole abbattere (come quelli che esordiscono con "non sono razzista ma...") - Questa è una città in cui da sempre prevale, a livello numerico, una sensibilità di sinistra. E' una città che guarda allo sviluppo. Se poi ci sono forze che vanno in direzioni diverse... beh, siamo pluralisti". A parte che scopro ora che il latino è di destra, nelle parole di Lavarello si nasconde tutta la violenza che necessariamente sta alla base della politicizzazione della vita privata. Chissenefrega se a Sestri la maggior parte della gente preferisce la messa in italiano, o preferisce non andare a messa? E chissenefrega se, agli occhi del sindaco, la messa in latino è un buffo orpello di persone restate indietro? La libertà è, appunto, la possibilità per ciascuno di fare quel che gli pare e piace, purché non danneggi il prossimo. Dal punto di vista "sociale", quello che è accaduto sabato è molto semplice: un gruppo di persone che aderiscono a una "associazione privata" (la Chiesa) hanno scelto, secondo le regole di quell'associazione, di organizzare un evento pacifico che non ha aggredito o disturbato nessuno. Perché mai il primo cittadino dovrebbe dare la sua approvazione? Coraggio, statalisti, buttate giù le carte.
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giovedì 2 ottobre 2008
Biciclettata a Chiavari: non è così che si salva il mondo
Ultimo atto della polemica tra il sindaco di Chiavari, Vittorio Agostino, e organizzazioni come Legambiente e Fiab sulla biciclettata. Fiab Tigullio annuncia che la biciclettata si farà comunque, domenica prossima, nonostante il primo cittadino abbia negato l'utilizzo esclusivo di alcune vie cittadine (qui la lettera del sindaco). Scrive Agostino: "non essendo disponibili ulteriori piste ciclabili, oltre a quelle già esistenti, questo tipo di manifestazione potrebbe appesantire il traffico cittadino". Durissima la reazione di Legambiente, che pure non segue Fiab nella biciclettata di domenica. Cerchiamo di chiarire. Non è, naturalmente, vietato pedalare a Chiavari. Quindi, non c'è nulla di male nella manifestazione organizzata per domenica, a meno che essa non si trasformi in un gesto di boicottaggio e abbia l'effetto (o lo scopo) di bloccare la circolazione automobilistica. La risposta del primo cittadino chiavarese è, sotto questo profilo, ineccepibile. Egli ha semplicemente sottolineato come sia fuori discussione l'ipotesi di bloccare delle vie per un'intera giornata, creando gravi disagi alla cittadinanza. Il ruolo di un sindaco è, appunto, quello di amministrare gli spazi comuni, cercando una ragionevole composizione degli interessi. La differenza tra uno spazio pubblico e uno privato è che, nel primo caso, non è chiara la distribuzione dei costi e dei benefici, e dunque ogni decisione viene, per dirla con Peppone, buttata in politica. Ci sono, però, casi in cui il trade off è di più facile soluzione. Sono quei casi in cui (a) non c'è in ballo alcun diritto fondamentale o interesse generale e (b) c'è una grande sproporzione numerica tra i beneficiari e coloro che invece devono subire un'iniziativa. E', per esempio, il caso della maggior parte dei sussidi alle imprese, in virtù dei quali una ristretta minoranza (i proprietari e i dipendenti delle imprese sussidiate) trae un grande vantaggio, non giustificato da reali motivazioni, a scapito della massa dei contribuenti. Ed è anche il caso della biciclettata di Chiavari, in cui una ristretta minoranza di appassionati delle due ruote vorrebbe prendere possesso di un'intera città. Nulla contro la bicicletta, per carità. E neanche nulla contro le buone intenzioni di chi ritiene, con mezza giornata sul sellino, di aver fatto la sua parte nella guerra santa per la salvezza del mondo. Però resta irremovibile la constatazione che la logica di Agostino è perfetta e razionale e giusta.
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mercoledì 1 ottobre 2008
Chiavari: Piccola vittoria per la privacy
In risposta alle obiezioni del garante della privacy, Francesco Pizzetti, di cui ci eravamo occupati anche su questo blog, il sindaco di Chiavari, Vittorio Agostino, si è impegnato a disattivare l'audio delle telecamere di cui la città è disseminata. Si tratta di una vittoria solo parziale, ma in questo caso il bicchiere è mezzo pieno. Nel senso che la questione di fondo - fino a che punto sia tollerabile che, nel nome della sicurezza, il controllo pubblico diventi pervasivo - è eminentemente pratica. C'è poco da discutere: una cosa che a me non piace, cioè le telecamere sulle strade (che sono cosa diversa dalle telecamere a circuito chiuso nei negozi), la maggior parte della popolazione le gradisce. Quindi, cedo alla violenza (la democrazia è, naturalmente, una sublimazione della guerra). Però, che a questo si aggiunga il fatto di essere captato mentre discuto con altre persone di faccende perfettamente legali, ma private, proprio non mi va giù. Giustamente, quindi, l'Authority è intervenuta. E Agostino ha fatto l'unica cosa che poteva fare: si è impegnato a disattivare i microfoni (l'alternativa essendo quella di cambiare tutte le telecamere, nuove di zecca, con un danno significativo al bilancio del comune). Non è il migliore dei mondi possibili, ma è un mondo migliore di quello che sembrava incombere fino a pochi giorni fa. Certo, non è bello sapere che i microfoni potrebbero essere attivati, e quindi quello che dici potrebbe essere ascoltato, in situazioni di "particolare gravità", qualunque cosa ciò significhi. Comunque, una pezza è stata messa, ed è già qualcosa.
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