Il Secolo XIX, 31 ottobre 2008
“Noi la crisi non la paghiamo”. Lo striscione in testa al corteo di ieri dice tanto, e forse involontariamente, sul sentimento prevalente tra quei cinquemila genovesi. Molti di essi non stavano, in realtà, protestando contro il decreto Gelmini, né marciavano per i tagli della finanziaria. E’ stata, la loro, una manifestazione identitaria: può essere un segno di vitalità democratica, ma certo non è una buona notizia per l’oggetto del contendere, cioè la scuola e l’università. Per certi versi, si è trattato dell’equivalente delle prove di forza che i sindacati diedero nel 1994 e nel 2002, contro la riforma delle pensioni (e la riforma D’Onofrio della scuola) e la revisione dell’articolo 18, rispettivamente. L’analogia non finisce qui. Quattordici anni fa, come sei anni fa e come oggi, la massa dei contestatori accusava il governo di ciò che non aveva fatto né intendeva fare. Il progetto del ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, contiene alcuni aspetti positivi e altri meno; analogamente, la logica dei tagli indiscriminati affronta un problema reale, non necessariamente nel modo migliore. Ma non c’è alcun tentativo di “privatizzazione” della scuola, né vengono messi in discussione i veri punti nevralgici, che vanno dall’allocazione dei finanziamenti all’autonomia degli istituti. Sul Corriere della sera di mercoledì, Michele Salvati ha suggerito che sia proprio l’assenza di un disegno organico, l’insistenza sui dettagli per quanto importanti, a spingere alla rivolta quella strana coalizione tra insegnanti e studenti, bidelli e famiglie, consumatori e fornitori del servizio educativo. Da qui, le critiche all’esecutivo per la sua mancanza di coraggio. Magari fosse così, perché sarebbe segno di una grande maturità da entrambe le parti. La sensazione, però, è che gli scioperi si siano svolti, paradossalmente, in un mondo parallelo in cui il governo dava retta a Salvati e agiva di conseguenza.
Riformare scuola e università richiede uno sforzo enorme, a partire dall’individuazione dei problemi. Problemi di inefficienza, anzitutto, come è emerso con chiarezza dal dibattito, sul Secolo XIX, tra Mauro Barberis e Maurizio Maresca (sulla Stampa di ieri, Luca Ricolfi ha stimato che, risolvendoli, si potrebbe risparmiare fino al 10 per cento). Poi, problemi di qualità: i test internazionali sulla preparazione degli studenti nelle materie scientifiche rivelano un gap drammatico rispetto agli altri paesi; per quel che riguarda l’università, nessuno dei nostri atenei compare tra quelli più reputati. La ragione è che non c’è traccia di meritocrazia, nel nostro percorso educativo. La meritocrazia non è un valore che possa essere sbandierato: è una pratica quotidiana, che dipende dai meccanismi di selezione, interna agli istituti e tra di essi, pubblici o privati che siano. Dopo di che, si può ritenere tranquillamente che il governo non stia affrontando queste criticità, o che le stia affrontando nel modo sbagliato. Ma quando il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, dice che “nelle scuole italiane non ci sono fannulloni, né abbiamo a che fare con le baronie”, non fa altro che allargare la faglia che separa la realtà dalla retorica, cioè il mondo raccontato oggi dai giornali da quello in cui il governo raccoglie la sfida di Salvati. Fannulloni e baroni non sono categorie dello spirito, ma persone in carne e ossa che adottano comportamenti socialmente nocivi, e con la cui esistenza chiunque, tranne forse Epifani, si è più volte scontrato. Negarne l’esistenza è doppiamente ridicolo: perché contraddice l’esperienza di tutti e perché rafforza il sospetto che la battaglia contro Mariastella Gelmini non esprima la, più o meno comprensibile, resistenza a questa riforma, bensì una più vasta ostilità a ogni tipo di riforma.
La manifestazione di ieri può essere compresa solo se si realizza che essa esprime una posizione latamente politica, che ha trovato nella scuola la scorciatoia più facile per organizzare il dissenso. Ciò determina una sovrapposizione opaca tra le legittime ragioni di chi teme provvedimenti concreti e quelle di chi, invece, rema contro a prescindere. La richiesta che sale dalla piazza è tanto forte quanto confusa: cosa vogliono, quelle persone? Se bisogna dar retta allo striscione, non vogliono pagare per la crisi. Che è una richiesta irreale, rarefatta: dalla recessione non si scappa, e in ogni caso il decreto Gelmini e i tagli alla scuola non dipendono dal ciclo economico.
Il fatto che la protesta sia fenomeno diffuso e, almeno in parte, slegato dalle sue motivazioni ufficiali, può anche costituire un’opportunità. Nel 1994, ci si muoveva contro la riforma della previdenza come se le pensioni fossero state azzerate; nel 2002, come se il governo avesse messo in discussione l’intero statuto dei lavoratori; e oggi si fanno le barricate come se in ballo ci fosse davvero una riforma ampia dell’istruzione. Ciò sottende che il costo politico di una piccola riforma sia quasi lo stesso che per una grande. Se, per assurdo, si fosse davvero tentato di privatizzare l’università, l’aspetto delle piazze non sarebbe stato molto diverso. Poiché gli attriti sono i medesimi, allora tanto varrebbe ragionare attorno a una trasformazione che sia davvero radicale, e che investa i centri di potere e le fonti di inefficienza vere: dalle modalità di finanziamento alla razionalizzazione degli istituti e dei corsi di laurea, dalla creazione di meccanismi competitivi alla miglior gestione del personale, fino all’abolizione del valore legale del titolo di studio. Se è corretta l’analisi di Dino Cofrancesco, che ha denunciato la natura corporativa della protesta, allora siamo nel mezzo di una partita a poker, in cui uno dei giocatori dà evidenti segni di nervosismo. Avrà, Mariastella Gelmini, il coraggio di rilanciare?
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2 commenti:
Davvero una bella analisi quella dell'enorme costo politico di riforme marginali. Meriterebbe di essere approfondita.
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