venerdì 28 novembre 2008
Torna la disoccupazione nel Tigullio: anche gli errori?
domenica 23 novembre 2008
sabato 22 novembre 2008
Perché il pubblico non può scegliere tra qualità e prezzo
Il primo difetto consiste nella mancanza di trasparenza. Poiché il soggetto che paga gli asili è diverso dal soggetto che ne fruisce, viene meno ogni automatismo nel controllo del rapporto qualità/prezzo. Il secondo difetto sta nel fatto che il prezzo alla "clientela" è normalmente mantenuto a un livello "politico", cioè basso, e quindi tende a mettere fuori mercato tutte le strutture che avrebbero una qualità leggermente superiore, ma un prezzo significativamente più alto (senza godere di uguali contributi pubblici ed essendo costantemente esposte al rischio di fallimento, in caso di gestione scriteriata). La somma del primo e del secondo difetto porta al terzo, cioè al fatto che le strutture pubbliche sono come la moneta cattiva che scaccia quella buona, innescando una "race to the bottom" che danneggia tanto i contribuenti (che pagano per le inefficienze) quanto i consumatori (che vedono limitata la loro libertà di scelta).
Come se ne esce? Ci sono diversi modi. Uno è quello individuato dal progetto di riforma di Roberto Calderoli, che passa per la definizione di "costi standard". Le strutture che hanno costi visibilmente superiori a quelli medi vengono costrette a tirare la cinghia. Questo metodo ha due limiti: in primo luogo, non riesce a catturare le specificità locali, secondariamente assume che il livello "medio" di spesa sia anche un livello "efficiente". Così non è, perché alla media partecipano anche le strutture inefficienti. Nel lungo termine, ci si aspetta naturalmente un miglioramento medio, ma anche in questo caso tutto è ancorato al caso, e non è detto che non si ricada nel rischio opposto - quello di arrivare a prezzi troppo alti (per la collettività, non per i consumatori) o qualità troppo scadente (per contenere i prezzi).
Un metodo alternativo è quello di lasciar liberi gli enti locali di organizzarsi come pare a loro. Questo è il federalismo. Gli enti locali migliori, sceglieranno di arrivare direttamente al terzo metodo, che è quello di liberalizzare. In un contesto competitivo, dove cioè prezzi e servizi sono liberi (o, in subordine, ma molto in subordine, il servizio "pubblico" viene assegnato tramite gare non farlocche), è il mercato a (a) far emergere il (o i) rapporto/i ottimale/i tra qualità e prezzo, e (b) far emergere diverse soluzioni con diversi rapporti. Naturalmente liberalizzare vorrebbe dire attaccare frontalmente gli interessi di chi beneficia dello status quo, cioè i politici che fanno le nomine e i dipendenti che sono pagati troppo (rispetto al valore dei servizi che producono) oppure sono troppo numerosi (che è lo stesso), o entrambe le cose. Per questa ragione sono molto pessimista. Per scornarsi contro interessi concentrati e consolidati, serve il supporto dell'opinione pubblica. La vicenda della riforma scolastica, che per certi versi è analoga, mostra però che la consuetudine con lo status quo e una certa avversione al rischio (cioè al nuovo) fa nascere strane coalizioni tra fruitori di un servizio scadente, e responsabili di quel servizio. Non saprei come uscirne, ma non c'è nessuna via d'uscita ovvia.
mercoledì 19 novembre 2008
Contro la crisi il governo impari dai consumatori
martedì 18 novembre 2008
Scuola. Pianeta Terra chiama Onda
lunedì 17 novembre 2008
venerdì 14 novembre 2008
Atenei, contro i nepotismi trasparenza e meritocrazia
La mamma non se la sceglie nessuno, ma il figlio, almeno in università, capita piuttosto spesso. L’inchiesta del Secolo XIX sulle parentele nell’ateneo genovese documenta qualcosa che, se non altro per anedottica, tutti conoscono: il nepotismo accademico. E’ opportuno, naturalmente, non generalizzare: non tutti i casi nascondono trame sordide, e spesso persone appartenenti alla stessa famiglia sono davvero meritevoli e competenti. Inoltre, probabilmente le dimensioni del fenomeno sono meno gravi che in altri posti – come nella facoltà di Economia a Bari, dove quasi un quarto dei docenti hanno almeno un famigliare per collega. Tuttavia, l’aspetto giornalisticamente rilevante è che, di fronte all’osservazione di questo dato, è difficile rimanere insensibili, o accettarlo come una semplice realtà della vita. Tutti – chi per esperienza diretta, chi per sentito dire – percepiscono che i concorsi universitari non sono quel meccanismo di selezione a prova di bomba che, talvolta, viene dipinto.
Infatti, i concorsi sono una diligenza che sembra fatta apposta per essere rapinata. I modi e i tempi con cui vengono banditi possono essere facilmente asserviti a esigenze di clan, ed essi finiscono per essere l’alibi dietro cui si nascondono gli sforzi dei baroni di promuovere i loro accoliti. Non ci sarebbe nulla di sbagliato, in ciò, se il processo fosse sano. In fondo, in qualunque università del mondo i professori cercano di aiutare i loro allievi più meritevoli. Solo che, altrove, chi compie scelte opportunistiche – piazzare il cugino, l’amante o lo yesman – finisce per pagarne le conseguenze, in Italia no. La ragione, come spiega l’economista bocconiano Roberto Perotti nel suo libro “L’università truccata”, sta nella “mancanza di incentivi e disincentivi appropriati. Nell’università italiana nessuno viene premiato se ha successo nella ricerca e nell’insegnamento, e nessuno paga se opera male”. L’università ha dei costi di ingresso molto alti, perché la porta è stretta e tutto viene filtrato attraverso concorsi che, nella maggioranza dei casi, sono pilotati. Ciò non significa che si compiano, generalmente, atti illeciti: per quanto impersonale e astratto, in un concorso c’è sempre una componente umana che è inevitabile e non è neppure desiderabile abolire. Quindi, il candidato somaro ma ben ammanigliato non deve far altro che aspettare che il babbo o la zia riescano a farlo giudicare da una commissione compiacente – magari dietro la promessa di restituire il favore ai commissari non appena necessario, oppure perché stanno già passando all’incasso. Dopo di che, la strada è in discesa: nessuno può tagliare l’insegnante incapace o lo studioso dormiglione, e nessuno può chiamare a risponderne chi gli ha dato un posto. La carriera non procede per merito, ma per anzianità. Il numero di pubblicazioni, la capacità affabulatoria, la profondità della riflessione scientifica sono marginali. Per giunta, è anomala l’evoluzione di redditi e carriere: il giovane, per quanto entusiasta e competente, prende quattro spicci, il vecchio incartapecorito che non legge da vent’anni e non scrive da trenta gode di un trattamento privilegiato.
Essere giovani non è un merito ed essere vecchi non è una colpa; avere un genitore o un parente nella stessa università non dovrebbero essere un handicap più di quanto dovrebbero far saltare gli ostacoli. Però, se si osserva che le famiglie accademiche superano una dimensione critica, se si nota che i loro membri non brillano per abilità, allora bisogna porsi delle domande. La prima riguarda i concorsi: davvero essi sono lo strumento migliore? Probabilmente, no. Poiché ogni concorso nasconde un processo di cooptazione, tanto varrebbe rendere questo meccanismo trasparente – e creare le condizioni per cui i baroni si assumono la responsabilità delle persone di cui si circondano. Tra l’altro, l’esistenza di dinamiche corrotte tende a propagarsi anche agli onesti: se io so che il personale viene selezionato secondo legami personali, cercherò di promuovere i candidati validi utilizzando gli stessi mezzi, pur non condividendoli in teoria. Seconda questione: la struttura delle retribuzioni è efficiente? Anche in questo caso, la risposta è negativa: non c’è ragione al mondo per cui un giovane di valore debba essere pagato meno di un anziano sciatto (così come sarebbe insensato il contrario). La conseguenza è una selezione al contrario: “sono esattamente coloro che pensano di non potercela fare con le proprie risorse intellettuali – ragiona Perotti – che avranno più incentivo a scegliere una carriera che remunera esclusivamente l’anzianità, una variabile in cui tutti sono ugualmente bravi senza nessuno sforzo”. Non stupisce che, nelle classifiche internazionali, gli atenei italiani non figurino quasi mai in posizioni di eccellenza, pur senza soffrire – e questo è un altro mito da sventare – di condizioni particolarmente ostiche dal punto di vista del finanziamento. Sempre per citare Perotti, “non è l’ammontare totale per studente, o la remunerazione media dei docenti, che è insufficiente; è la sua distribuzione e la sua progressione che sono perverse”.
Questi nodi non possono essere sciolti senza incidere profondamente sull’organizzazione dell’università – prima ancora che sulla didattica – e cioè senza dotare di reale autonomia gli atenei e senza metterli in vera competizione l’uno con l’altro (facendo lo stesso coi professori). Le istituzioni migliori devono avere più soldi, e i docenti migliori devono essere meglio pagati, perché questo è l’unico modo di riflettere il loro valore sociale e l’interesse di tutti a una formazione universitaria e una ricerca di qualità. Ricostruire la credibilità degli studiosi e del loro lavoro è l’unico modo per far piazza pulita dei retropensieri. Altrimenti, continuerà ad aleggiare il sospetto che il tale non sia in cattedra perché bravo, ma perché amico di amici.
giovedì 13 novembre 2008
Liberalizzare i saldi
mercoledì 12 novembre 2008
Efficiente sarà lei
domenica 9 novembre 2008
Liberismo extraconsiliare
Al solito. Maggioranza e opposizione del Consiglio comunale di Genova si scontrano per ragioni contrapposte, ma egualmente avverse al mercato. In discussione l’istituzione di un’Authority per i servizi pubblici locali (trasporto pubblico, servizi idrici, fornitura di energia elettrica e di gas…) proposta dalla Giunta guidata da Marta Vincenzi (e prevista all’art. 68 c. 5 dello Statuto comunale approvato lo scorso maggio). A favore ovviamente i consiglieri di centrosinistra; contro, altrettanto ovviamente, i consiglieri di centrodestra. Gli uni sostengono che un’autorità di controllo garantirebbe finalmente buona qualità e tariffe contenute dei servizi; gli altri, viceversa, che non garantirebbe altro che lo stipendio dei suoi componenti: “a vigilare sui spl basta il Consiglio comunale!”. Nessuno propone la liberalizzazione. Anche se la privatizzazione di società partecipate e aziende speciali accompagnata dall’affidamento dei servizi tramite gara sarebbe l’unico provvedimento in grado di garantire quella efficienza e quella convenienza dei spl tanto care a entrambi gli schieramenti. A parole.