mercoledì 31 dicembre 2008
Buon Anno
sabato 27 dicembre 2008
A Sestri Levante Babbo Natale porta un baraccone pubblico
Il primo carrozzone pubblico del 2009 nascerà a Sestri Levante? Lo sapremo lunedì, quando il consiglio comunale dovrà discutere una delibera volta ad “assicurare il controllo pubblico… su tutte le attività e le strutture in ambito portuale”, compresi forse i servizi strettamente commerciali. A tal fine, è prevista la creazione di un “soggetto giuridico societario costituito dal comune e da esso controllato attraverso la proprietà maggioritaria del relativo capitale azionario”, le cui attività dovranno “garantire comunque all’amministrazione pubblica una quota adeguata del reddito prodotto dall’utilizzazione dei beni pubblici demaniali”. Queste poche righe sono un concentrato del male che caratterizza l’erogazione dei servizi pubblici in Italia, e che li rende più costosi e meno efficienti. In pratica, la giunta guidata da Andrea Lavarello vuole creare una nuova società controllata dal comune, che dovrebbe al tempo stesso gestire – presumibilmente in affidamento diretto – tutte le concessioni e i servizi portuali, e fornire all’erario entrate sufficienti. Cioè, il progetto di fondo è quello di cancellare ogni forma di possibile concorrenza, istituendo una tassa occulta sulle attività portuali.
La nuova società si andrebbe ad aggiungere alle cinque già partecipate dal comune di Sestri Levante (che ha meno di ventimila abitanti), tra cui Stella Polare (che gestisce la casa di riposo e la farmacia) e Fondazione Mediaterraneo (il cui scopo è la “promozione della ricerca avanzata e la diffusione della cultura della comunicazione, intesa come scambio di informazioni che utilizzino tutti i media, dalla parola, alla carta stampata, fino alle più avanzate tecnologie telematiche”, cioè macina soldi pubblici e produce chiacchiera privata). Non c’è nulla, ma proprio nulla, che sia oggi fatto da queste realtà e che non possa essere svolto meglio da soggetti privati in regime competitivo.
La delibera della giunta di Sestri Levante sostiene che “evidentemente” un soggetto privato non sarebbe in grado di svolgere propriamente tutte le funzioni richieste, ma poi richiede che la nuova compagnia pubblica fornisca al comune un sufficiente flusso di cassa: cioè, l’obiettivo non è minimizzare il costo per il consumatore, ma massimizzare il reddito per il comune. E’ il più classico degli esempi di rendita da monopolio. L’unica differenza tra un monopolio privato (garantito dalla legge) e uno pubblico è che nel primo la rendita si trasforma, generalmente, quasi integralmente in extraprofitti, mentre nel secondo si ripartisce tra extraprofitti e inefficienze (per esempio, livelli occupazionali eccessivi).
Quella di cancellare la competizione per occupare un mercato non è, purtroppo, un’abitudine del solo comune di Sestri Levante. Un’inchiesta di un paio di anni fa del Liguria Business Journal ha mostrato come le società controllate dal comune di Genova abbiano un fatturato complessivo di più di un miliardo di euro e occupino quasi settemila persone; il comune della Spezia partecipa a quarantasei diverse società, Savona undici, Imperia dodici, Chiavari quattro. Sul sito della provincia di Genova vengono censite ventiquattro partecipazioni, mentre la Regione Liguria partecipa direttamente a tre consorzi e otto aziende, tra cui la Filse, una holding che ha in pancia una pluralità di altre compagnie.
Quando va bene, questi soggetti introducono inefficienze sul mercato o ne estraggono rendite a favore dell’azionista pubblico; quando va male, sono veicoli fuori bilancio utilizzati per nascondere i puffi delle amministrazioni o come strumenti clientelari. In ogni caso, quel che davvero conta non è se appartengano, individualmente, all’una o all’altra categoria: il semplice fatto che possano appartenere alla seconda, e che comunque non arrechino alcun beneficio al consumatore, dovrebbe essere più che sufficiente ad abbandonare questa forma di controllo dell’economia. Nella maggior parte dei casi, poi, queste società non sono quotate a Piazza Affari, e dunque non hanno neppure quel minimo di disciplina finanziaria che è imposta dalle regole della borsa.
Il bello è che tutte le parti politiche dicono di voler porre fine allo “statalismo municipale”: ci ha provato, nella scorsa legislatura, il ministro degli Affari regionali, Linda Lanzillotta, con un disegno di legge che avrebbe abolito l’affidamento diretto (e dunque fatto venir meno l’incentivo a costituire società di comodo). Il progetto fu affossato dall’opposizione ideologica di Rifondazione comunista, Comunisti italiani e verdi. All’indomani delle elezioni 2008, il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, avanzò un’idea simile, che era in parte contenuta nella finanziaria, ma che venne subito neutralizzata su opportunistica richiesta della Lega (che nei suoi comuni gestisce molte e ricche municipalizzate). Se in Parlamento sono le ali estreme a fare il lavoro sporco, a quanto pare in periferia le cose vanno diversamente. I sindaci, di qualunque colore essi siano, se ne fregano delle liberalizzazioni e vanno avanti per la loro strada. Il primo cittadino di Sestri Levante, Lavarello, appartiene al Partito democratico come Lanzillotta, ma si comporta coerentemente con le indicazioni dell’asse comunista-leghista. Lo stesso fanno altri sindaci del Pd e del Pdl. L’assalto al portafoglio dei consumatori e l’istinto al controllo pubblico dell’economia sono, quasi per definizione, bipartisan.
mercoledì 24 dicembre 2008
Abolizione delle province. Il presidente della provincia dice no
sabato 20 dicembre 2008
Shameless self promotion
giovedì 18 dicembre 2008
Bad news
mercoledì 17 dicembre 2008
La sanità pubblica degli orrori
domenica 14 dicembre 2008
Abolire le province. The Day After. Ora battete un colpo
L'incontro promosso dall'Istituto Bruno Leoni e dall'Associazione La Maona a Chiavari è stato un successo, come si dice, di pubblico e di critica. Ne hanno parlato, tra gli altri, Il Secolo XIX, L'Opinione, il Corriere Mercantile e diversi siti locali (qui, qui e qui, per esempio). Tutte le relazioni sono state interessanti e, in modo diverso, puntuali. La partecipazione dei presenti è stata viva, a tratti vivace (in qualche momento perfino troppo). Credo però che questo evento abbia dimostrato che, anche in una realtà come la nostra, è possibile affrontare argomenti di portata più ampia, offrendo un punto di vista liberista, senza che ci si trovi necessariamente al bar a prendere il caffé. Vorrei considerare questo piccolo convegno come un punto di partenza, da cui avviare un percorso più solido e meno occasionale.
Se ci siete - lettori, lo so che ci siete - battete un colpo e fatevi sentire.
venerdì 12 dicembre 2008
Abolire le Province. Oggi a Chiavari
“Abolire le Province?”. È il titolo del libro (edito da Rubbettino/Leonardo Facco) di Silvio Boccalatte che affronta il tema delle riforme istituzionali e federali sostenendo la necessità di eliminare «enti dalle ridottissime competenze» che comportamo «spese assolutamente sproporzionate». Per Gianfranco Fabi, che cura la prefazione del volume (in vendita a 11 euro), «Il caso delle Province è drammaticamente emblematico di una filosofia di fondo di uno Stato che è ormai incapace di una significativa progettualità istituzionale». Il volume sarà presentato nel corso del convegno “Abolire le Province? Federalismo ed enti inutili” in programma oggi, alle 16.30, presso la Società Economica di Chiavari. L’incontro prevede la partecipazione dell’autore, dell’onorevole Renzo Lusetti (Pd), di FrancoMonteverde (centro internazionale “La Maona”) e dell’onorevoleMichele Scandroglio (Pdl).
D.BAD.
domenica 7 dicembre 2008
Casetta rossa la trionferà?
Non vivo più in zona e non ho seguito, se non marginalmente e orecchiando qua e là, la faccenda. Posso (e voglio) però dire che queste polemiche mi hanno stufato. L'amministrazione continua a lisciare il pelo a frange "giovanili" che non ha senso, politicamente, accattivarsi (almeno se il Partito democratico di Sestri è lo stesso Partito democratico che, a livello nazionale, dice quello che dice). L'opposizione sceglie la via facile della contestazione senza però, per quel che traspare dal comunicato offrire un'alternativa. Sono due i problemi. Primo: tutti i beneficiari dell'opera ne sono indegni oppure qualcuno va salvato? Non lo so: dico solo che, nella seconda ipotesi, bisogna dire come e quando e a che condizioni. Secondo: che fare, se non un "centro sociale" (qualunque cosa ciò voglia dire, e non l'ho mai capito), nelle Casette rosse? A questa domanda ho, a differenza della prima, una risposta precisa e convinta: venderle. Non ristrutturarle e poi venderle. Venderle, con gli attuali indici di edificabilità. La soluzione più ovvia e più giusta, chissà perché, nessuno la propone mai.
Dalla crisi si esce con meno tasse
Dalla finanza creativa al rigorismo contabile, il passo può essere breve. Così, almeno, è accaduto nel caso di Giulio Tremonti, l’uomo accusato dal centrosinistra vittorioso nel 2006 dello sfascio del bilancio pubblico, e che oggi si mette di traverso a tutte le iniziative di spesa.Opponendosi al ricorso disinvolto ai crediti d’imposta (che “non possono essere un bancomat”) e nella resistenza alle richieste di aiuti pubblici, il ministro dell’Economia interpreta un atteggiamento razionale di fronte alla doppia sfida posta dalla crisi economica mondiale e dagli specifici handicap italiani. Sono queste due condizioni a limitare la libertà di manovra del governo, a costringerlo a camminare su un sentiero stretto e impervio. È dunque un atto di responsabilità prenderne atto e rinunciare alla flessibilità annunciata dall’Unione europea riguardo ai parametri di Maastricht.
L’Italia è infatti il Paese col debito pubblico più alto: il 104,1 per cento del prodotto interno lordo nel 2008. Il secondo peggior Stato membro è la Grecia, col 93,4per cento, quello migliore è il Lussemburgo (14,1 per cento), la media dell’eurozona è del 66,6 per cento. È anzitutto questa realtà a scoraggiare il finanziamento della spesa pubblica in deficit. Come ha notato sul Sole 24 Ore di ieri Luca Beltrametti, l’esigenza di mantenere in ordine i conti pubblici non va letta soltanto in relazione agli obblighi comunitari, ma anche rispetto alla credibilità del sistema paese, e dunque alla sua capacità di attrarre investimenti.“I mercati giudicano le nostre politiche fiscali non solo sulla base del rispetto scolastico dei parametri di Maastricht – ha scritto il professore dell’Università di Genova – ma anche sulla base dei diversi fattori che determinano l’effettiva capacità del Paese di onorare il debito… L’Italia è quindi probabilmente il Paese europeo più interessato a che le deroghe del regime tradizionale di determinazione del rapporto debito/Pil avvengano in un quadro di massima trasparenza”.
Nella sostanza, la tesi di Beltrametti è che, poiché siamo lo Stato con la situazione contabile più critica, è nostro interesse, sia nel breve che nel lungo termine,non peggiorare le cose,perché ogni scivolamento ci si ritorcerebbe contro. Quando il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, ha evocato lo spettro dell’Argentina e ha scandito la possibilità di default, insomma, non ha fatto un’iperbole,ma ha indicato un rischio concreto, per quanto relativamente basso, con cui l’Italia deve oggi confrontarsi e che non può in ogni caso ignorare. Il monito di Sacconi, per quanto ingiustamente criticato, è insomma il necessario richiamo a non abbassare la guardia. Allo stesso modo, ha perfettamente ragione Tremonti a contrastare le sirene del keynesismo e a disertare gli appelli confindustriali. L’argomento del ministro è lineare: «Il nostro vincolo non è il patto, è il mercato finanziario», ha affermato mercoledì in audizione alla Camera. Ora, questo è un passaggio fondamentale, perché nasconde una verità spesso trascurata: l’Italia sta patendo la crisi finanziaria come tutti gli altri, ed è dunque chiamata a mettere in campo strumenti eccezionali per reagirvi (a partire dal moderato intervento a sostegno della capitalizzazione del sistema bancario). Ma la sua patologia è più profonda, e deriva da ruggini e svantaggi competitivi strutturali, che esistevano prima dell’entrata in recessione ed esisteranno dopo, se non verranno prese adeguate contromisure. Oggi subiamo come gli altri, ma ieri abbiamo creato meno ricchezza e siamo cresciuti meno.
Tre indicatori possono aiutare a comprenderne le ragioni. Secondo la classifica “Doing Business” della Banca Mondiale, che misura la facilità nello svolgere attività imprenditoriali, l’Italia è al sessantacinquesimo posto (con punte straordinariamente negative: siamo centoventottesimi per la complessità delle norme tributarie e centocinquantaseiesimi per il rispetto dei contratti). Per quanto attiene alla libertà economica, l’Italia è sessantaquattresima, tra il Madagascar e gli Emirati Arabi Uniti. Infine, l’indice della competitività ci consegna un non entusiasmante quarantanovesimo posto. In tutti e tre questi indicatori, poi, di anno in anno il nostro Paese segue un lento calo, frutto più che altro dell’altrui miglioramento.
Paradossalmente, questo crea una grande opportunità per l’Italia: con le stesse riforme, essa può accelerare l’uscita dalla crisi e porre le basi per un rilancio. Essenzialmente, si tratta di ridurre il peso dello Stato – a partire dal carico fiscale – e sciogliere i lacci che trattengono l’economia, oltre che cancellare le varie rendite di posizione create da un contesto regolatorio soffocante. Occorre creare vera competizione dove non c’è, cioè proseguire il cammino liberalizzatore iniziato a fine anni Novanta – tra l’altro, ciò renderebbe possibile una riduzione dei prezzi, per esempio, dei servizi pubblici locali. Ma bisogna anche aggredire con forza la questione fiscale: sul Foglio di ieri, Ernesto Felli ha sottolineato che “la politica dovrebbe avere come obiettivo la rimozione o l’attenuazione” delle distorsioni create da una fiscalità rapace e confusa, e cioè “limare le aliquote”. Durante il biennio del centrosinistra e poi in campagna elettorale, Tremonti ha spesso accusato la coalizione guidata da Romano Prodi di praticare la “filosofia del tassa e spendi”. L’impegno rigorista del ministro dell’Economia dimostra la sua buonafede sul lato della spesa. Per quel che riguarda invece le tasse, dalla Robin Tax al raddoppio dell’Iva su Sky, ha dato un’altra sensazione: questa sarà la legislatura di “Giulio Padoa Schioppa”?
giovedì 4 dicembre 2008
Abolire le province? Un dibattito a Chiavari
mercoledì 3 dicembre 2008
martedì 2 dicembre 2008
- authority + concorrenza
Anche per questo in parlamento sono in discussione più progetti di riforma della legge n. 84/1994 e, sempre al riguardo, è allo studio anche un organico disegno di legge del governo cui il ministro dei trasporti Matteoli pare tenere particolarmente. In attesa di avere a disposizione la versione definitiva del testo, l’auspicio è di vedere portato avanti il processo di liberalizzazione del comparto iniziato quattordici anni fa con scarsi risultati soprattutto a causa dello strapotere attribuito all’autorità portuale.
Meno authority e più concorrenza farebbero bene al porto (che attrarrebbe più vettori e più investitori), e anche ai tribunali (che si potrebbero finalmente occupare di altro).
Forza Musso. Ecco perché il Pdl deve fare le primarie
Le buone idee generano scompiglio. Il volume delle repliche alla proposta di Enrico Musso, di tenere le primarie nel centrodestra per le prossime elezioni regionali, è una sonora dimostrazione che il senatore del Pdl ha toccato un nervo scoperto. L’apertura di Sandro Biasotti, che si è così smarcato dal suo partito, lascia a sua volta intravvedere scenari interessanti. La ricerca di legittimazione popolare per le candidature, del resto, è anche un modo di lanciare un messaggio: in fondo, se si teme il giudizio della propria base, con che credibilità ci si può presentare di fronte agli elettori? Ma la questione delle primarie nasconde anche un tema più generale e profondo, come ha rilevato lo stesso Biasotti: sedici anni e dodici governi dopo le elezioni del 23 aprile 1992, il sistema politico italiano non è ancora riuscito a trovare un equilibrio. Sono cambiate le leggi elettorali, i partiti hanno mutato nome, hanno attraversato scissioni, si sono aggregati, ma ancora restano aperti i nodi della selezione della classe dirigente e del rapporto tra gli schieramenti.
Le primarie possono aiutare nella ricerca del giusto grado di compenetrazione tra apparati politici e società civile. Perfino quando i risultati sono scontati – come con Romano Prodi nel 2006 e Walter Veltroni nel 2008 – esse servono a sostanziare una leadership che abbia l’ambizione di proiettarsi al di là dei confini del proprio schieramento. E’, questa, una condizione essenziale a gettare le basi per un’attività di governo a 360 gradi, ma anche per segnare l’indipendenza rispetto alle burocrazie partitiche. Non è un caso se le primarie sono un tassello centrale del progetto di riforma di Giovanni Guzzetta, il costituzionalista che ha promosso lo sfortunato referendum contro il “porcellum”: le primarie, oltre tutto, rendono i candidati “accountable”, responsabili personalmente delle loro promesse e della loro performance; riducono il peso delle negoziazioni condotte nelle stanze fumose e complicano la vita ai golpisti da congresso.
La questione è delicata perché si colloca all’incrocio tra l’interesse pubblico e il diritto di qualunque associazione, compresi i partiti politici, di organizzarsi come vuole. In fin dei conti, tutto si riduce al tentativo di escogitare strumenti per arginare le due derive a cui la democrazia è soggetta. La prima deriva è quella partitocratica: l’incomunicabilità tra il paese reale e i partiti, lo strapotere delle correnti e per loro mezzo dei gruppi di pressione. A effettuare tutte le scelte rilevanti sono i signori delle tessere, il parlamento non è eletto ma si elegge da sé. Le votazioni si riducono alla scelta del premier (in un sistema che non è formalmente presidenzialista): peggio ancora, dal 1994 sono state quasi esclusivamente un referendum pro o contro Silvio Berlusconi, ed è significativo che sistematicamente i cittadini abbiano votato contro la maggioranza uscente, qualunque essa fosse. Il rischio opposto è quello del populismo: procedure di nomina verticistiche e deresponsabilizzanti acuiscono l’istinto a solleticare la pancia del paese, a prescindere dall’effettiva realizzabilità delle promesse fatte. Nell’Italia del 2008, paradossalmente, entrambi i rischi convivono, con un’aggravante: il venir meno del ruolo dei partiti come agenzie del consenso, capaci di formare la loro classe dirigente, ha durante una prima fase aperto le porte a tutti indistintamente, e poi, come per reazione, ha portato a una chiusura quasi ermetica, per cui chi c’è c’è, chi non c’è resta fuori. Si è dunque passati dall’osmosi acritica con la società civile, al suo rigetto.
In un tale contesto, le primarie possono contribuire, se non a risolvere i problemi, almeno a darvi una risposta. La scelta dei candidati attraverso elezioni aperte a tutti, iscritti e no, è un processo aperto, meno pilotabile. I signori delle tessere continueranno a contare, naturalmente, e questo è inevitabile; ma la partecipazione popolare ne diluirà l’influenza e ne farà crescere il pudore. Al tempo stesso, la tentazione populistica sarà temperata dal realismo tipico di chi ha consuetudine con la politica, e i suoi vizi. Le primarie non sono un meccanismo perfetto, perché soffrono di tutti i limiti della democrazia, compresa la tensione tra populismo e cedimento agli interessi particolari, che si replica pure a questo livello; ma, quanto meno, aiutano a rendere più trasparente e forse più efficace la selezione interna, soprattutto in presenza di un dibattito schizofrenico e di una legge elettorale fatta apposta per offuscare il singolo candidato, che è sempre di più l’anonimo membro di una lista compilata da altri.
Ha quindi ragione, Musso, quando afferma che “le primarie, all’interno del Popolo della libertà, sono una scelta ormai irrimandabile per stabilire chi portare davanti ai cittadini”, sottintendendo un deficit di dialettica interna e di elaborazione culturale, peraltro visibile ai più. E lo stesso vale per il Partito democratico, che pochi giorni fa ha messo sotto gli occhi dei media lo spettacolo sconsolante dell’elezione del coordinatore regionale del Lazio. Anche in quel caso non c’erano primarie, e il congresso si è risolto in uno scontro in campo aperto tra veltroniani, dalemiani, e altre razze minoritarie. Entrambi i partiti avrebbero tutto da guadagnare da procedure più limpide e responsabilizzanti, e quindi sarebbe una splendida notizia se il centrodestra ligure ascoltasse Musso. Purtroppo è difficile che, senza pressioni esterne, un organismo corregga spontaneamente i suoi errori. Il malessere della società italiana è tangibile, ma se non trova traduzione politica rischia di degenerare in paralisi civile. Un paese che ha un dannato bisogno di riforme, semplicemente, non può permetterselo.
lunedì 1 dicembre 2008
Su luce e gas il governo fa invasione di campo
venerdì 28 novembre 2008
Torna la disoccupazione nel Tigullio: anche gli errori?
domenica 23 novembre 2008
sabato 22 novembre 2008
Perché il pubblico non può scegliere tra qualità e prezzo
Il primo difetto consiste nella mancanza di trasparenza. Poiché il soggetto che paga gli asili è diverso dal soggetto che ne fruisce, viene meno ogni automatismo nel controllo del rapporto qualità/prezzo. Il secondo difetto sta nel fatto che il prezzo alla "clientela" è normalmente mantenuto a un livello "politico", cioè basso, e quindi tende a mettere fuori mercato tutte le strutture che avrebbero una qualità leggermente superiore, ma un prezzo significativamente più alto (senza godere di uguali contributi pubblici ed essendo costantemente esposte al rischio di fallimento, in caso di gestione scriteriata). La somma del primo e del secondo difetto porta al terzo, cioè al fatto che le strutture pubbliche sono come la moneta cattiva che scaccia quella buona, innescando una "race to the bottom" che danneggia tanto i contribuenti (che pagano per le inefficienze) quanto i consumatori (che vedono limitata la loro libertà di scelta).
Come se ne esce? Ci sono diversi modi. Uno è quello individuato dal progetto di riforma di Roberto Calderoli, che passa per la definizione di "costi standard". Le strutture che hanno costi visibilmente superiori a quelli medi vengono costrette a tirare la cinghia. Questo metodo ha due limiti: in primo luogo, non riesce a catturare le specificità locali, secondariamente assume che il livello "medio" di spesa sia anche un livello "efficiente". Così non è, perché alla media partecipano anche le strutture inefficienti. Nel lungo termine, ci si aspetta naturalmente un miglioramento medio, ma anche in questo caso tutto è ancorato al caso, e non è detto che non si ricada nel rischio opposto - quello di arrivare a prezzi troppo alti (per la collettività, non per i consumatori) o qualità troppo scadente (per contenere i prezzi).
Un metodo alternativo è quello di lasciar liberi gli enti locali di organizzarsi come pare a loro. Questo è il federalismo. Gli enti locali migliori, sceglieranno di arrivare direttamente al terzo metodo, che è quello di liberalizzare. In un contesto competitivo, dove cioè prezzi e servizi sono liberi (o, in subordine, ma molto in subordine, il servizio "pubblico" viene assegnato tramite gare non farlocche), è il mercato a (a) far emergere il (o i) rapporto/i ottimale/i tra qualità e prezzo, e (b) far emergere diverse soluzioni con diversi rapporti. Naturalmente liberalizzare vorrebbe dire attaccare frontalmente gli interessi di chi beneficia dello status quo, cioè i politici che fanno le nomine e i dipendenti che sono pagati troppo (rispetto al valore dei servizi che producono) oppure sono troppo numerosi (che è lo stesso), o entrambe le cose. Per questa ragione sono molto pessimista. Per scornarsi contro interessi concentrati e consolidati, serve il supporto dell'opinione pubblica. La vicenda della riforma scolastica, che per certi versi è analoga, mostra però che la consuetudine con lo status quo e una certa avversione al rischio (cioè al nuovo) fa nascere strane coalizioni tra fruitori di un servizio scadente, e responsabili di quel servizio. Non saprei come uscirne, ma non c'è nessuna via d'uscita ovvia.
mercoledì 19 novembre 2008
Contro la crisi il governo impari dai consumatori
martedì 18 novembre 2008
Scuola. Pianeta Terra chiama Onda
lunedì 17 novembre 2008
venerdì 14 novembre 2008
Atenei, contro i nepotismi trasparenza e meritocrazia
La mamma non se la sceglie nessuno, ma il figlio, almeno in università, capita piuttosto spesso. L’inchiesta del Secolo XIX sulle parentele nell’ateneo genovese documenta qualcosa che, se non altro per anedottica, tutti conoscono: il nepotismo accademico. E’ opportuno, naturalmente, non generalizzare: non tutti i casi nascondono trame sordide, e spesso persone appartenenti alla stessa famiglia sono davvero meritevoli e competenti. Inoltre, probabilmente le dimensioni del fenomeno sono meno gravi che in altri posti – come nella facoltà di Economia a Bari, dove quasi un quarto dei docenti hanno almeno un famigliare per collega. Tuttavia, l’aspetto giornalisticamente rilevante è che, di fronte all’osservazione di questo dato, è difficile rimanere insensibili, o accettarlo come una semplice realtà della vita. Tutti – chi per esperienza diretta, chi per sentito dire – percepiscono che i concorsi universitari non sono quel meccanismo di selezione a prova di bomba che, talvolta, viene dipinto.
Infatti, i concorsi sono una diligenza che sembra fatta apposta per essere rapinata. I modi e i tempi con cui vengono banditi possono essere facilmente asserviti a esigenze di clan, ed essi finiscono per essere l’alibi dietro cui si nascondono gli sforzi dei baroni di promuovere i loro accoliti. Non ci sarebbe nulla di sbagliato, in ciò, se il processo fosse sano. In fondo, in qualunque università del mondo i professori cercano di aiutare i loro allievi più meritevoli. Solo che, altrove, chi compie scelte opportunistiche – piazzare il cugino, l’amante o lo yesman – finisce per pagarne le conseguenze, in Italia no. La ragione, come spiega l’economista bocconiano Roberto Perotti nel suo libro “L’università truccata”, sta nella “mancanza di incentivi e disincentivi appropriati. Nell’università italiana nessuno viene premiato se ha successo nella ricerca e nell’insegnamento, e nessuno paga se opera male”. L’università ha dei costi di ingresso molto alti, perché la porta è stretta e tutto viene filtrato attraverso concorsi che, nella maggioranza dei casi, sono pilotati. Ciò non significa che si compiano, generalmente, atti illeciti: per quanto impersonale e astratto, in un concorso c’è sempre una componente umana che è inevitabile e non è neppure desiderabile abolire. Quindi, il candidato somaro ma ben ammanigliato non deve far altro che aspettare che il babbo o la zia riescano a farlo giudicare da una commissione compiacente – magari dietro la promessa di restituire il favore ai commissari non appena necessario, oppure perché stanno già passando all’incasso. Dopo di che, la strada è in discesa: nessuno può tagliare l’insegnante incapace o lo studioso dormiglione, e nessuno può chiamare a risponderne chi gli ha dato un posto. La carriera non procede per merito, ma per anzianità. Il numero di pubblicazioni, la capacità affabulatoria, la profondità della riflessione scientifica sono marginali. Per giunta, è anomala l’evoluzione di redditi e carriere: il giovane, per quanto entusiasta e competente, prende quattro spicci, il vecchio incartapecorito che non legge da vent’anni e non scrive da trenta gode di un trattamento privilegiato.
Essere giovani non è un merito ed essere vecchi non è una colpa; avere un genitore o un parente nella stessa università non dovrebbero essere un handicap più di quanto dovrebbero far saltare gli ostacoli. Però, se si osserva che le famiglie accademiche superano una dimensione critica, se si nota che i loro membri non brillano per abilità, allora bisogna porsi delle domande. La prima riguarda i concorsi: davvero essi sono lo strumento migliore? Probabilmente, no. Poiché ogni concorso nasconde un processo di cooptazione, tanto varrebbe rendere questo meccanismo trasparente – e creare le condizioni per cui i baroni si assumono la responsabilità delle persone di cui si circondano. Tra l’altro, l’esistenza di dinamiche corrotte tende a propagarsi anche agli onesti: se io so che il personale viene selezionato secondo legami personali, cercherò di promuovere i candidati validi utilizzando gli stessi mezzi, pur non condividendoli in teoria. Seconda questione: la struttura delle retribuzioni è efficiente? Anche in questo caso, la risposta è negativa: non c’è ragione al mondo per cui un giovane di valore debba essere pagato meno di un anziano sciatto (così come sarebbe insensato il contrario). La conseguenza è una selezione al contrario: “sono esattamente coloro che pensano di non potercela fare con le proprie risorse intellettuali – ragiona Perotti – che avranno più incentivo a scegliere una carriera che remunera esclusivamente l’anzianità, una variabile in cui tutti sono ugualmente bravi senza nessuno sforzo”. Non stupisce che, nelle classifiche internazionali, gli atenei italiani non figurino quasi mai in posizioni di eccellenza, pur senza soffrire – e questo è un altro mito da sventare – di condizioni particolarmente ostiche dal punto di vista del finanziamento. Sempre per citare Perotti, “non è l’ammontare totale per studente, o la remunerazione media dei docenti, che è insufficiente; è la sua distribuzione e la sua progressione che sono perverse”.
Questi nodi non possono essere sciolti senza incidere profondamente sull’organizzazione dell’università – prima ancora che sulla didattica – e cioè senza dotare di reale autonomia gli atenei e senza metterli in vera competizione l’uno con l’altro (facendo lo stesso coi professori). Le istituzioni migliori devono avere più soldi, e i docenti migliori devono essere meglio pagati, perché questo è l’unico modo di riflettere il loro valore sociale e l’interesse di tutti a una formazione universitaria e una ricerca di qualità. Ricostruire la credibilità degli studiosi e del loro lavoro è l’unico modo per far piazza pulita dei retropensieri. Altrimenti, continuerà ad aleggiare il sospetto che il tale non sia in cattedra perché bravo, ma perché amico di amici.
giovedì 13 novembre 2008
Liberalizzare i saldi
mercoledì 12 novembre 2008
Efficiente sarà lei
domenica 9 novembre 2008
Liberismo extraconsiliare
Al solito. Maggioranza e opposizione del Consiglio comunale di Genova si scontrano per ragioni contrapposte, ma egualmente avverse al mercato. In discussione l’istituzione di un’Authority per i servizi pubblici locali (trasporto pubblico, servizi idrici, fornitura di energia elettrica e di gas…) proposta dalla Giunta guidata da Marta Vincenzi (e prevista all’art. 68 c. 5 dello Statuto comunale approvato lo scorso maggio). A favore ovviamente i consiglieri di centrosinistra; contro, altrettanto ovviamente, i consiglieri di centrodestra. Gli uni sostengono che un’autorità di controllo garantirebbe finalmente buona qualità e tariffe contenute dei servizi; gli altri, viceversa, che non garantirebbe altro che lo stipendio dei suoi componenti: “a vigilare sui spl basta il Consiglio comunale!”. Nessuno propone la liberalizzazione. Anche se la privatizzazione di società partecipate e aziende speciali accompagnata dall’affidamento dei servizi tramite gara sarebbe l’unico provvedimento in grado di garantire quella efficienza e quella convenienza dei spl tanto care a entrambi gli schieramenti. A parole.
venerdì 7 novembre 2008
Io sto coi precari
lunedì 3 novembre 2008
Commercio. Siamo tutti chiavaresi
venerdì 31 ottobre 2008
Uniti nella protesta per qualcosa che non c'è
“Noi la crisi non la paghiamo”. Lo striscione in testa al corteo di ieri dice tanto, e forse involontariamente, sul sentimento prevalente tra quei cinquemila genovesi. Molti di essi non stavano, in realtà, protestando contro il decreto Gelmini, né marciavano per i tagli della finanziaria. E’ stata, la loro, una manifestazione identitaria: può essere un segno di vitalità democratica, ma certo non è una buona notizia per l’oggetto del contendere, cioè la scuola e l’università. Per certi versi, si è trattato dell’equivalente delle prove di forza che i sindacati diedero nel 1994 e nel 2002, contro la riforma delle pensioni (e la riforma D’Onofrio della scuola) e la revisione dell’articolo 18, rispettivamente. L’analogia non finisce qui. Quattordici anni fa, come sei anni fa e come oggi, la massa dei contestatori accusava il governo di ciò che non aveva fatto né intendeva fare. Il progetto del ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, contiene alcuni aspetti positivi e altri meno; analogamente, la logica dei tagli indiscriminati affronta un problema reale, non necessariamente nel modo migliore. Ma non c’è alcun tentativo di “privatizzazione” della scuola, né vengono messi in discussione i veri punti nevralgici, che vanno dall’allocazione dei finanziamenti all’autonomia degli istituti. Sul Corriere della sera di mercoledì, Michele Salvati ha suggerito che sia proprio l’assenza di un disegno organico, l’insistenza sui dettagli per quanto importanti, a spingere alla rivolta quella strana coalizione tra insegnanti e studenti, bidelli e famiglie, consumatori e fornitori del servizio educativo. Da qui, le critiche all’esecutivo per la sua mancanza di coraggio. Magari fosse così, perché sarebbe segno di una grande maturità da entrambe le parti. La sensazione, però, è che gli scioperi si siano svolti, paradossalmente, in un mondo parallelo in cui il governo dava retta a Salvati e agiva di conseguenza.
Riformare scuola e università richiede uno sforzo enorme, a partire dall’individuazione dei problemi. Problemi di inefficienza, anzitutto, come è emerso con chiarezza dal dibattito, sul Secolo XIX, tra Mauro Barberis e Maurizio Maresca (sulla Stampa di ieri, Luca Ricolfi ha stimato che, risolvendoli, si potrebbe risparmiare fino al 10 per cento). Poi, problemi di qualità: i test internazionali sulla preparazione degli studenti nelle materie scientifiche rivelano un gap drammatico rispetto agli altri paesi; per quel che riguarda l’università, nessuno dei nostri atenei compare tra quelli più reputati. La ragione è che non c’è traccia di meritocrazia, nel nostro percorso educativo. La meritocrazia non è un valore che possa essere sbandierato: è una pratica quotidiana, che dipende dai meccanismi di selezione, interna agli istituti e tra di essi, pubblici o privati che siano. Dopo di che, si può ritenere tranquillamente che il governo non stia affrontando queste criticità, o che le stia affrontando nel modo sbagliato. Ma quando il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, dice che “nelle scuole italiane non ci sono fannulloni, né abbiamo a che fare con le baronie”, non fa altro che allargare la faglia che separa la realtà dalla retorica, cioè il mondo raccontato oggi dai giornali da quello in cui il governo raccoglie la sfida di Salvati. Fannulloni e baroni non sono categorie dello spirito, ma persone in carne e ossa che adottano comportamenti socialmente nocivi, e con la cui esistenza chiunque, tranne forse Epifani, si è più volte scontrato. Negarne l’esistenza è doppiamente ridicolo: perché contraddice l’esperienza di tutti e perché rafforza il sospetto che la battaglia contro Mariastella Gelmini non esprima la, più o meno comprensibile, resistenza a questa riforma, bensì una più vasta ostilità a ogni tipo di riforma.
La manifestazione di ieri può essere compresa solo se si realizza che essa esprime una posizione latamente politica, che ha trovato nella scuola la scorciatoia più facile per organizzare il dissenso. Ciò determina una sovrapposizione opaca tra le legittime ragioni di chi teme provvedimenti concreti e quelle di chi, invece, rema contro a prescindere. La richiesta che sale dalla piazza è tanto forte quanto confusa: cosa vogliono, quelle persone? Se bisogna dar retta allo striscione, non vogliono pagare per la crisi. Che è una richiesta irreale, rarefatta: dalla recessione non si scappa, e in ogni caso il decreto Gelmini e i tagli alla scuola non dipendono dal ciclo economico.
Il fatto che la protesta sia fenomeno diffuso e, almeno in parte, slegato dalle sue motivazioni ufficiali, può anche costituire un’opportunità. Nel 1994, ci si muoveva contro la riforma della previdenza come se le pensioni fossero state azzerate; nel 2002, come se il governo avesse messo in discussione l’intero statuto dei lavoratori; e oggi si fanno le barricate come se in ballo ci fosse davvero una riforma ampia dell’istruzione. Ciò sottende che il costo politico di una piccola riforma sia quasi lo stesso che per una grande. Se, per assurdo, si fosse davvero tentato di privatizzare l’università, l’aspetto delle piazze non sarebbe stato molto diverso. Poiché gli attriti sono i medesimi, allora tanto varrebbe ragionare attorno a una trasformazione che sia davvero radicale, e che investa i centri di potere e le fonti di inefficienza vere: dalle modalità di finanziamento alla razionalizzazione degli istituti e dei corsi di laurea, dalla creazione di meccanismi competitivi alla miglior gestione del personale, fino all’abolizione del valore legale del titolo di studio. Se è corretta l’analisi di Dino Cofrancesco, che ha denunciato la natura corporativa della protesta, allora siamo nel mezzo di una partita a poker, in cui uno dei giocatori dà evidenti segni di nervosismo. Avrà, Mariastella Gelmini, il coraggio di rilanciare?
giovedì 30 ottobre 2008
Giovani Imprenditori Chiavaresi
martedì 28 ottobre 2008
Il carbone non si rimpiazza dall'oggi al domani
La battaglia di striscioni tra i dipendenti della centrale Enel di Genova e i militanti di Greenpeace non è lo scontro anacronistico tra economia ed ecologia, lavoro e ambiente. Il reciproco scambio di accuse, clima killer contro ecocazzari, è la versione popolare di uno tra i temi più complessi che la politica oggi si trova ad affrontare, e cioè quale valore si debba dare alla cosiddetta sostenibilità, come affrontare le tante incertezze che a essa sono sottese, e con quali tempi. E’ lo stesso tipo di confronto, per certi versi, che vede su un livello più alto opporsi l’Italia e l’Unione europea sul pacchetto clima, ma in modo più crudo e più vivo. Qui non c’è gioco lobbistico o guerra di cifre: qui c’è chi difende il proprio reddito e chi pensa che le sue attività mettano a repentaglio il futuro di tutti.
Per cominciare, dunque, i dati. L’impianto a carbone che sta tra il molo San Giorgio e l’ex Idroscalo risale al 1927-28, quando era la centrale più grande d’Europa; ma non è, ovviamente, la stessa cosa di allora. I due gruppi originari, da 25 megawatt ciascuno, sono stati più volte sostituiti, e ora la potenza installata è pari a 300 megawatt. I cambiamenti non hanno riguardato solo la crescita dimensionale, ma anche l’adeguamento alle normative ambientali, sempre più stringenti. Questo è un dato cruciale: come tutti gli impianti italiani, anche quello sotto la Lanterna deve rispettare le regole nazionali e comunitarie. Come ogni impianto alimentato a carbone, anche questo ha emissioni di anidride carbonica (CO2), sospettata di contribuire al riscaldamento globale, relativamente alte. Va però notato che la CO2 non è dannosa alla salute o all’ambiente, di per sé – tanto che chiunque la ingurgita inconsapevolmente quando beve bibite gassate. Gli stessi sforzi europei non puntano a limitare le emissioni di biossido di carbonio dalle singole centrali, ma a contenere il totale delle emissioni. Questa è una differenza sostanziale rispetto agli inquinanti propriamente detti, come il monossido di carbonio, gli SOx, gli NOx e le polveri, che in concentrazione eccessiva sono epidemiologicamente correlate a diversi mali.
Dal punto di vista pratico, la centrale genovese serve a soddisfare i consumi cittadini. Non è possibile, semplicemente premere il tasto “off”. “E’ possibile sostituire la potenza della Lanterna con fonti pulite come eolico e solare”, ha detto ieri al Secolo XIX il responsabile campagna energia e clima di Greenpeace, Francesco Tedesco. Ammesso che sia vero, non sarebbe sufficiente: l’impianto Enel lavora, mediamente, tra le quattro e le cinquemila ore all’anno, e soprattutto può entrare in funzione ogni volta che è necessario. Solare ed eolico funzionano, in media, un migliaio di ore all’anno, cioè a parità di potenza installata generano tra un quarto e un quinto dell’elettricità, e per giunta lo fanno quando le condizioni climatiche lo consentono; inoltre, costano di più, per chilowattora prodotto, e l’extracosto ricade sulle spalle dei cittadini attraverso la tariffa. Sarebbe come confrontare due automobili con lo stesso numero di cavalli: una si muove mediamente cinquantamila chilometri l’anno e si mette in moto quando girate la chiave. L’altra è alimentata dal sole: ha un costo-chilometro superiore, vi consente di percorrere al massimo diecimila chilometri all’anno, e cammina solo quando pare a lei. E’ ovvio che questi due veicoli non sono realmente alternativi, nel senso che il secondo non può sostituire il primo. Fuor di metafora, le nuove rinnovabili sono splendide, ma al momento non sono in grado, per ragioni tecnologiche ed economiche, di rimpiazzare le fonti convenzionali, cioè i combustibili fossili e il nucleare. Possono svolgere un ottimo ruolo al loro fianco, ma è irrealistico pensare che possano fare di più. Per questo il valore per la società di un chilowattora a carbone è superiore a quello dello stesso chilowattora solare o eolico – e il suo costo è inferiore.
Ciò non significa che non si possano, nel lungo termine, immaginare cambiamenti anche sostanziali nel nostro panorama energetico. Ma essi non possono non venire dal progresso tecnologico, dallo sviluppo di fonti che siano, al tempo stesso, competitive e pulite. Pretendere mutamenti drastici e immediati è utopistico, se non dannoso. Il carbone, peraltro, occupa un ruolo marginale nel paniere energetico italiano, a differenza di quanto accade, e non senza motivo, nel resto d’Europa – come ha recentemente notato il segretario nazionale della Filcem-Cgil, Giacomo Berni. Anche perché in un settore che, come quello energetico, ha un’alta intensità di capitale, le evoluzioni sono per loro stessa natura morbide, graduali. Difficilmente avvengono con degli strappi bruschi. Sul piano occupazionale, questo significa che i centoventi lavoratori della centrale Enel hanno ragione a difendere il loro posto. E’ chiaro che le loro rivendicazioni hanno l’obiettivo di tutelare la loro posizione individuale, ma essa coincide col più ampio e generale interesse a disporre di forniture energetiche affidabili, continuative, economiche e a impatto ambientale ragionevolmente contenuto. L’Enel si è impegnata con la regione Liguria a smantellare la centrale entro il 2020: dando il tempo di riqualificare il personale, una parte del quale nel frattempo andrà in pensione, e di rimpiazzare l’elettricità oggi prodotta col carbone genovese. Il passaggio da una fonte di energia a un’altra, o meglio l’evoluzione del mix energetico nel suo complesso, non può prescindere dalla creazione di un servizio migliore – cioè efficiente ed economico. Risolvere questioni complesse è difficile e richiede tempo: molto più che scalare la Lanterna.
Crossposted @ RealismoEnergetico.org
lunedì 27 ottobre 2008
Lies, damned lies, and statistics
domenica 26 ottobre 2008
Off topic 3
sabato 25 ottobre 2008
Il protezionismo dell'aperitivo
venerdì 24 ottobre 2008
Bravo Limoncini
giovedì 23 ottobre 2008
I cittadini faranno le spese della spesa comunale
Un'ulteriore variante è quella che sembra più probabile a leggere l'articolo del Secolo. Cioè, che il comune si faccia promotore di una sorta di carta fedeltà, individuale o collettiva, tra i commercianti. Se fosse una carta individuale, avrei delle grandi perplessità: lo scopo delle card è, ovviamente, fidelizzare la clientela, cosa di per sé lodevole. Ma, in questo caso, l'effetto potrebbe essere anche quello di "segmentare" il mercato, facendo venir meno la concorrenza tra i commercianti. Quindi, paradossalmente, l'esito potrebbe essere un cartello costruito dal comune, basato su una spartizione del mercato, dal quale in linea teorica ci si può attendere nel medio termine un aumento dei prezzi nelle prime tre settimane del mese (i commercianti fessi non ci sono: i commercianti fessi falliscono). Se, invece, si tratta di una card collettiva, allora non ne vedo il senso: perché mai i commercianti dovrebbero scontare la spesa nell'ultima settimana a chi, nelle prime tre, ha comprato altrove? La dinamica che si innesterebbe sarebbe questa: nelle prime tre settimane del mese, tutti comprano dove si riforniscono solitamente, cioè dove trovano il compromesso qualità/prezzo più conveniente per il loro palato e il loro portafoglio. Nella quarta, tutti andrebbero invece a comprare dove la qualità è migliore (e presumibilmente i prezzi sono più alti). Quindi, il risultato sarebbe che i negozi low cost vedrebbero ridursi la loro quota di mercato nella quarta settimana, mentre quelli migliori finirebbero, non essendo fessi per il teorema di cui sopra, a ridurre la qualità (cioè i costi).
Quindi, la card comunale può portare a tre conclusioni, o a una combinazione di esse: un aumento del prelievo fiscale (a parità di altre condizioni, e tra l'altro più per finanziare l'enforcement che per coprire il delta di spesa); un aumento dei prezzi nelle prime tre settimane del mese; un peggioramento della qualità nell'ultima settimana del mese. Siamo sicuri di ritenerlo desiderabile?
martedì 21 ottobre 2008
domenica 19 ottobre 2008
sabato 18 ottobre 2008
Credere, obbedire, combattere
La tesi di don Gianni è, sostanzialmente, che dentro il Pdl nessuno è letto per meriti personali, e tutti per grazia ricevuta. Forse è vero (anche se, almeno nel caso di Musso, qualche merito deve pur esserci, se nella corsa per Palazzo Tursi i voti personali hanno superato quelli di lista). Ma è un bene? Su questo ho, sinceramente, dei seri dubbi. Non sono un esperto di sistemi elettorali, tema che (mi perdoneranno i miei amici che la pensano diversamente) trovo peraltro piuttosto noioso. Mi pare però che sia importante concedere al cittadino qualche potere che non sia il mero acquisto a busta chiusa della proposta di un partito. Questo potere si può declinare in due modi: in un sistema maggioritario, voto un candidato scelto da altri ma conosco la persona che beneficerà del mio appoggio; in un sistema proporzionale, scelgo il candidato sapendo che il mio voto potrebbe portare acqua al mulino di un altro, più abile ad aggregare consenso. La terza via italiana è quella di un sistema proporzionale nel quale questo rischio è abolito, nel senso che voto il partito senza sapere la persona; o che, per votare una persona che apprezzo, sono costretto ad appoggiare implicitamente tutti coloro che, nell'ordinamento della lista, arrivano prima. Questo porta al risultato che è stato mirabilmente sintetizzato dal presidente del consiglio, quando ha affermato che il ruolo dei parlamentari è quello di alzare la manina per dir di sì (o di no, se stanno all'opposizione) alle decisioni del governo.
L'idea che gli eletti debbano rispondere unicamente al partito, e mai alla loro coscienza (o al loro interesse), mi sembra non solo velleitaria, ma soprattutto umiliante - per gli eletti, e per chi li vota. Nel senso che, se una persona occupa un ruolo, si suppone che debba dare un contributo. La democrazia è un meccanismo molto imperfetto che consente a quanti subiscono tale ruolo di giudicare, una volta ogni n anni, chi lo occupa. A che serve eleggere e farsi eleggere, se poi coloro che occupano una poltrona devono comportarsi come automi e credere, obbedire, combattere? E, analogamente, che senso hanno tutti i discorsi che tutti facciamo, chi al bar chi sui giornali (credetemi, non c'è grande differenza), sull'esigenza di selezionare una classe dirigente cazzuta? Se l'apporto del singolo eletto si deve ridurre al sottostare agli ordini che vengono dal piano di sopra, allora il singolo eletto non serve, è inutile. Magari è anche così, ma allora tanto varrebbe prenderne atto e abolire le assemblee, mantenendo in vita solo gli organi di governo. Non sto dicendo che sarebbe sbagliato o controproducente, sto solo dicendo che ci risparmierebbe un sacco di noie e di costi.
Sto anche dicendo che quella di Baget mi sembra una visione riduttiva del ruolo dei parlamenti, che sono figli della generosa illusione liberale secondo cui era possibile imbrigliare il potere, dividendolo. L'illusione è fallita, sostanzialmente, come qualche secolo di parlamentarismo dimostra. Ma non mi pare una buona ragione per buttare il bambino e tenere l'acqua sporca.
martedì 14 ottobre 2008
Del perché i politici hanno diritto al parcheggio privilegiato
domenica 12 ottobre 2008
Il Terzo Valico tra Keynes e la crisi
Caro Direttore,
Sul Giornale di domenica 12 ottobre 2008, Walter Bertini sostiene che la realizzazione delle grandi infrastrutture, come il Terzo Valico, potrebbe aiutare l’Europa a uscire dalla crisi finanziaria. Il riferimento storico a cui Bertini guarda è quello del New Deal, cioè il massiccio piano di investimenti pubblici voluto dal presidente americano Franklin D. Roosevelt. Allo scopo di consentire un nuovo New Deal europeo, egli propone di studiare meccanismi che consentano di porre la spesa per questo genere di investimenti al di fuori del vincolo del 3 per cento al rapporto tra deficit e Pil degli Stati membri, sancito dal trattato di Maastricht. Questa analisi è discutibile sotto tre punti di vista: storico, teorico e pratico.
Dal punto di vista storico, la crisi del ’29 fu causata principalmente da una cattiva politica monetaria. L’interventismo rooseveltiano non ebbe alcuna virtù salvifica, ma prolungò gli effetti del crollo borsistico per oltre dieci anni e ne aggravò l’impatto sull’economia reale. Posto che il paragone tra il 1929 e il 2008 non tiene (se non altro perché oggi, fortunatamente, non si vedono e non si prevedono i tassi d’inflazione e disoccupazione di allora), vi sono ragioni per credere che la spesa pubblica non possa risolvere un fenomeno di questo genere (la sostanziale indifferenza dei mercati ai salvataggi a catena di questi giorni ne è una conferma). La tesi di Bertini, secondo cui “lo Stato tornò a investire in grandi opere infrastrutturali che potevano assicurare migliaia di posti di lavoro, fatturato per le imprese e gettito per le casse pubbliche”, è risibile. Infatti lo Stato poteva e può reperire risorse in due modi: attraverso il prelievo fiscale, o stampando moneta (e producendo inflazione). In entrambi i casi, il risultato era ed è quello di impoverire cittadini e imprese e redistribuire risorse, normalmente in modo inefficiente. Infatti, delle due l’una: o le infrastrutture, come il Terzo Valico, servono, oppure no. Nel primo caso, esse vanno realizzate in nome della loro utilità, e non a causa di ragioni congiunturali. Nel secondo, non c’è crisi che possa rendere utile un’opera inutile. In entrambi i casi, la riflessione su quali infrastrutture debbano essere realizzate e quali no dovrebbe essere sottratta a considerazioni relative al ciclo economico. Se fosse vero, d’altronde, che l’intervento pubblico genera ricchezza, il Mezzogiorno d’Italia dovrebbe essere una tra le aree più progredite d’Europa, il Nordest una tra le più povere. Guardacaso, accade il contrario. In generale, un buon indicatore dell’utilità di un’infrastruttura è la sua capacità di attirare finanziamenti privati: è su questo che si dovrebbe misurare l’urgenza del Terzo Valico, non sulle condizioni dell’economia in generale.
Una conseguenza di tutto ciò è che il rigore dei conti pubblici è di fondamentale importanza proprio nei momenti di vacche magre, quando più alta è la tentazione dello spreco e quando più rischioso è l’aumento della spesa, che necessariamente presuppone un pari aumento del prelievo (attuale o futuro) e, dunque, la creazione di una zavorra per l’economia reale. Non c’è nulla che i governi possano fare per accelerare la fine della crisi, se non ritirarsi nel cantuccio che gli spetta: scrivere regole rigorose ma semplici, provvedere all’erogazione dei servizi pubblici in modo efficiente, rimuovere tutti gli ostacoli alla crescita dell’economia. Tra di essi, alte tasse, eccessi regolatori e spesa pubblica.
Per uscire dalla crisi del 2008, l’unica cosa che non serve sono quelle politiche pubbliche che trasformarono, ottant’anni fa, una crisi di Wall Street in una Grande Depressione.
Carlo Stagnaro
www.iltigullio.info
martedì 7 ottobre 2008
Corfole!
Chi si fa i fatti suoi...
Dice don Pino: "C'erano perplessità e restano soprattutto perché la richiesta è partita da un gruppo limitatissimo di persone. Questa è la messa di Pio V e del Concilio di Trento... Si vede che chi ne ha fatto richiesta è un gruppo di persone chic". Ora, posto che non voglio entrare nel merito, posto che non penso che essere "chic" sia un insulto, e posto che la questione del pastore e delle pecorelle smarrite (se il parroco ritiene che questo siano i fedeli affezionati al vecchio rito) me la ricordavo in maniera diversa. Posto tutto questo, con rispetto parlando, don Pino ci è o ci fa? Nel senso che il "gruppo limitatissimo di persone" era comunque composto da 71 individui, secondo quanto riferisce il quotidiano locale, che mi sembra un numero dignitosissimo. E, a prescindere da questo, non capisco perché don Pino ritenga utile parlare in questo modo alla stampa. La separazione tra Stato e chiesa, che è un po' una barzelletta (ma non nel senso convenzionale, come spiega qui Carlo Lottieri), dovrebbe essere intesa soprattutto come una tutela a favore della Chiesa contro la politicizzazione. Se la Chiesa è cattolica, cioè universale, non può permettersi di mettere in campo il derby - conservatori contro progressisti - e in ogni caso non può permettersi di affrontare coi criteri del teatrino partitico questioni che, semplicemente, non esistono.
Quanto sia profondo l'errore del parroco sestrese lo rivela l'intervento di Lavarello, che subito, direbbe Peppone, l'ha buttata in politica. "Viva la libertà - ha premesso, col tipico artificio retorico di chi la libertà la vuole abbattere (come quelli che esordiscono con "non sono razzista ma...") - Questa è una città in cui da sempre prevale, a livello numerico, una sensibilità di sinistra. E' una città che guarda allo sviluppo. Se poi ci sono forze che vanno in direzioni diverse... beh, siamo pluralisti". A parte che scopro ora che il latino è di destra, nelle parole di Lavarello si nasconde tutta la violenza che necessariamente sta alla base della politicizzazione della vita privata. Chissenefrega se a Sestri la maggior parte della gente preferisce la messa in italiano, o preferisce non andare a messa? E chissenefrega se, agli occhi del sindaco, la messa in latino è un buffo orpello di persone restate indietro? La libertà è, appunto, la possibilità per ciascuno di fare quel che gli pare e piace, purché non danneggi il prossimo. Dal punto di vista "sociale", quello che è accaduto sabato è molto semplice: un gruppo di persone che aderiscono a una "associazione privata" (la Chiesa) hanno scelto, secondo le regole di quell'associazione, di organizzare un evento pacifico che non ha aggredito o disturbato nessuno. Perché mai il primo cittadino dovrebbe dare la sua approvazione? Coraggio, statalisti, buttate giù le carte.