Lo sapevo. Accidenti. Alla fine tocca sempre a me fare il cattivo. Ok, ci sto: vestirò ancora i panni del vecchio, del reazionario, e di quello vagamente misantropo. Il ruolo dell’omo salvatico, insomma, sarà –come volete voi (e in fondo un po’ anch’io)- di nuovo mio. Sarò tanto sgraziato, lapidario e paradossale quanto vi aspettate, se non di più.
Attenzione, però. Accetto la parte, non il copione. Mi spiego: difenderò, sì, l’ormai famigerata ordinanza Lavarello (leggetela per conoscerne il contenuto); ma lo farò recitando battute mie, senza ridurmi a sostenere, contro l’evidenza storica e la mia stessa natura, improbabili apologie del proibizionismo, che –per dirla col Giovanni Busacca de La grande guerra- in questa faccenda non c’entra “proprio un bel gnènt”. Né a livello teorico, né a livello pratico, né a livello economico.
A livello teorico un’ordinanza contingibile e urgente, emanata da un primo cittadino in veste di tutore dell’ordine pubblico ai sensi dell’art. 54 comma 2 del D. Lgs. 18/8/2000 n. 267, che vieta la vendita e la detenzione di alcol in spazi pubblici ben circoscritti per un tempo determinato non si può definire un provvedimento proibizionista. Non è proibizionista nella forma: perché non è di carattere generale e astratto né è a tempo indeterminato come il 18esimo emendamento della costituzione americana ma particolare, concreto e limitato nel tempo. Non è proibizionista nella sostanza: perché, nonostante le infelici dichiarazioni in salsa neogramsciana del sindaco (semel comunista, semper comunista), non ha finalità pseudoeducative ma si propone –vedere i considerata dell’atto- di evitare turbative dell’ordine pubblico. Si tratta di stato vigilante notturno, non di stato etico.
A livello pratico, l’ordinanza è fallita non perché fosse proibizionista e quindi insensata bensì perché non è stata fatta rispettare. Vigili urbani, carabinieri e polizia non hanno spiccato le multe previste per i trasgressori, altrimenti di persone col bottiglione di vino da cinque litri ce ne sarebbero state ben poche. Dopo una, due multe da 500 € pochi altri avrebbero ragionevolmente provato le brezze dell’infrazione alcolica. Ancora una volta il problema è quello dell’effettività della norma, non della sua impossibilità che in questo caso –ripeto: assai limitato nel tempo e nello spazio- è tutta da dimostrare. Si tratta di stato di diritto, non di stato totalitario.
A livello economico, poi, non si vede perché l’incasso (privato) di due ore delle mescite locali –non delle multinazionali- debba essere salvaguardato a scapito dei costi (pubblici e privati) che ha sempre comportato lo svolgimento di simili manifestazioni ad alta gradazione alcolica: inquinamento acustico e del suolo, assistenza sanitaria, danneggiamenti... La lobby dei titolari di bar, pub e chioschi negli anni passati ha regolarmente scaricato sugli altri esercenti (albergatori, imprenditori balneari e negozianti), sui residenti (proprietari e inquilini del centro storico e del lungomare) e sui contribuenti le indesiderabili conseguenze dei loro guadagni da movida: il Comune ha preso atto di questo fatto. Si tratta di stato minimo, non di stato interventista.
Finché esisteranno degli spazi pubblici, esisterà un’autorità pubblica col compito di tutelare l’ordino pubblico negli spazi pubblici. Incominciamo col contrastare il Comune imprenditore e pianificatore, poi metteremo in discussione il Comune tutore dell’ordine (e, quindi, gli spazi pubblici). Nel frattempo, però, vediamo di non cadere nella tentazione di diffondere un’idea irresponsabile (ergo illiberale) di libertà per riscuotere facili e rumorosi quanto inutili consensi.
UP-DATE: l'ordinanza continua a far discutere anche gli amministratori tigullini.
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